Corriere della Sera

DANTE FERRETTI

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Quando scoprii che esisteva il mestiere di scenografo, feci promettere a mio padre di mandarmi a Roma all’accademia di belle arti se, per una volta, fossi stato promosso a giugno».

E oggi, a 75 anni, ha fatto nove film con Martin Scorsese.

«Sto lavorando al decimo, Killers of the Flower Moon. Lo conobbi a Roma, era in viaggio di nozze con Isabella Rossellini, venne a Cinecittà a trovare Federico Fellini e ci trovò sul set di un bordello per La città delle donne. Gli dissi: in fondo, è quello che succede dopo la luna di miele».

Come lo convinse a girare «Gangs of New York» a Cinecittà?

«Col cibo. Lo portai alla Cascina, un ristorante lì vicino. Voleva girare in Romania, convenne che a Roma si mangiava meglio».

Il suo esordio fu nel 1964, aiuto scenografo ne «Il Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini.

«Prima, a 17 anni, feci praticamen­te da solo due film sui pirati, a bassissimo costo. Il produttore non riusciva a crederci e così arrivai a Pasolini. Nel ’69, poi, ebbi una delusione, ero aiuto nel Satyricon di Federico Fellini, lui mi chiamava “Dantino”, lasciava che gli proponessi le cose, mi dava ascolto. Ero tutto felice, ma si dimenticar­ono di mettere il mio nome nei titoli di coda. Quando lo scoprii, depresso, me ne stavo andando al mare, ma tornai a casa perché avevo dimenticat­o il costume. In quel momento, telefona Franco Rossellini, dice: fai la valigia, ho il biglietto aereo pronto, fra quattro ore devi stare in Turchia e da lì in Cappadocia, Pasolini ti vuole scenografo di Medea. Fu il primo film tutto mio».

Dopo, a Fellini, disse di no.

«Mi voleva, ma gli risposi: perché mi vuole rovinare la carriera? Mi richiami quando avrò dieci anni di esperienza. E così fu. Abbiamo fatto insieme 10 film. Tutte le mattine, passava a prendermi per andare a Cinecittà e mi chiedeva che avevo sognato. Io non sognavo mai niente, ma cominciai a inventare cose che gli potevano piacere. E lui: che fai, ti sogni quello che voglio io? Nella Città delle donne, le scene di Marcello Mastroiann­i sotto il letto o che scende di notte in toboga vengono dai sogni».

«Variety» ha scritto che la sua scenografi­a del «Barone di Münchhause­n» è la più incredibil­e della storia del cinema.

«Fu il mio primo film con un regista americano. Stavo a Los Angeles, per un film che non si fece e mi chiamò Terry Gilliam».

Perché Gilliam, in un documentar­io su di lei, ha detto che spara un sacco di bugie?

La vocazione di un bimbo Da piccolo rubavo i soldi dalle tasche di papà per andare al cinema tutti i pomeriggi. Non studiavo, ero sempre rimandato. Poi scoprii che esisteva il mestiere di scenografo

Coppia sul set e nella vita Conobbi Francesca grazie a De André. Stavo via mesi sui set, così lei mi chiese di lavorare con me. Temevo di litigare, invece comunicava­mo col pensiero

«Perché su quel set, erano finiti i soldi e il produttore voleva fermare la produzione e cacciare Gilliam che, secondo loro, spendeva tanto, mentre secondo me erano loro che avevano preventiva­to troppo poco. Stavamo girando a Cinecittà, che è come se fosse casa mia, e mi metto di mezzo, dico: parlo io coi fornitori, ci penso io. Insomma, feci un sacco di magheggi, furono cambiati vari produttori, ma Gilliam rimase e io tenni tutto in piedi. È stata la mia prima nomination di dieci agli Oscar, otto condivise con mia moglie».

Capita spesso che un film salti?

«Sempre. Ne avevo preparato uno per Tim Burton da 220 milioni di dollari, quando saltò, Tim quasi piangeva. Mi disse: se vuoi, ho un filmetto piccolo, da soli 50 milioni. E io: non ti preoccupar­e, lo faccio. Era Sweeney Todd e fu il mio primo Oscar».

Come se la cavò col budget, per così dire, «ridotto»?

«C’erano tre milioni per la scenografi­a e 15 per gli effetti al computer. Dissi: se ne sposti cinque sulle scene, le faccio tutte dal vero, perché farle indegne?».

In che modo il digitale ha cambiato il suo lavoro?

«Poco. Lo uso, a volte, per allargare le scene, l’orizzonte».

Come ha iniziato a lavorare con sua moglie?

«Stiamo insieme da più di 40 anni. La conobbi in Sardegna, all’inaugurazi­one della mia casa a Portobello di Gallura. Arrivò con Fabrizio De André e la moglie. Faceva l’arredatric­e, scoprimmo che a Roma abitavamo vicino. Io stavo via mesi sui set, finché mi chiese di lavorare con me. Non volevo: a lavorare insieme si litiga. Poi la portai con me a fare La Pelle di Liliana Cavani, era il 1981. Scoprii che era bravissima e che comunicava­mo col pensiero».

Porta mai a casa pezzi di scenografi­a?

«Per farne che?».

Perché ricostruis­ce tutto daccapo, invece di girare in location?

«Perché è più bello, perché posso farlo come voglio. Anche se ai produttori racconto che mandare il cast in giro, pagare le diarie, costerebbe di più. Quando uscì Il Nome della Rosa, mi chiamarono da una rivista di viaggi, cercavano l’abbazia con il labirinto verticale e non la trovavano. Dissi: è a Roma, vicino Prima Porta, accanto a una cava di tufo, ma sbrigatevi perché domani la buttano giù».

Che pensa quando vede distrugger­e un’abbazia come quella o il castello della «Cenerentol­a» di Kenneth Branagh?

«Mi piace, perché così ho lo spazio per farne un altro. L’importante, quando fai una sceno- La carriera

● Ferretti ha lavorato con alcuni dei più grandi registi al mondo. Il debutto ufficiale avvenne nel 1964 con «Il Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini

● Due dei tre Oscar li ha ottenuti insieme alla moglie Francesca Lo Schiavo con i film di Martin Scorsese «The Aviator» (2005) e «Hugo Cabret» (2012). Il terzo con «Sweeney Todd» di Tim Burton (2008)

● Nel 1998 per il film «Kundun» di Scorsese fu candidato all’oscar in due categorie: migliori costumi e migliore scenografi­a grafia, è metterci sempre un errore, se no sembra finta. E perché, se poi fai un errore vero, puoi dire che era voluto».

Di quale scenografi­a va più fiero?

«Sempre della prossima, spero».

C’è un regista italiano con cui le piacerebbe lavorare?

«Non conosco molto la nuova generazion­e. Mi ha chiamato Matteo Garrone, ma non ero libero. Con Giuseppe Tornatore siamo amici, mi piacerebbe».

Immagino che per gli italiani lei costi troppo.

«Non sono io che costo, ma faccio cose che per loro costano troppo. Qui, affittano un appartamen­to e ci girano dentro tutto il film».

Come si spiega il caso Weinstein?

«Ho fatto quattro film con lui. Gli piacevano le ragazze, alcune ci stavano, sperando che le chiamasse per un film, con alcune ci provava lui. Sono cose che succedono dappertutt­o».

Ha conosciuto il presidente Donald Trump?

«No, ma sono stato a casa sua nella Trump Tower, a fine anni 90. Cercavamo una penthouse per Vi presento Joe Black di Martin Brest. Entro da una porta placcata d’oro e mi trovo dentro un salone tutto colonne corinzie d’oro rosso, una cosa di un tale cattivo gusto da essere affascinan­te. Il letto era per cinque o sei persone, e sopra c’era un enorme quadro con la testa di Trump. Il living aveva al centro una torre alta tre piani e il lampadario ondeggiava di continuo tanto eravamo in alto. Preferii ricostruir­e la scenografi­a da zero».

Gli Obama la invitarono alla Casa Bianca, dopo che il Moma le dedicò una retrospett­iva.

«Loro sì, ma poi non andai: Michelle voleva una mia Master Class per i giovani, ma non trovarono i soldi».

In compenso, è stato a casa del Dalai Lama.

«Per Kundun, di Martin Scorsese. Il Dalai Lama mi fece gli schizzi della casa dov’era nato e del palazzo di Dharamsala con tutte le stanze. Gli chiesi di firmarli, nel caso avessi voluto venderli. Dopo, Martin voleva tenerli lui, ma gli diedi solo delle fotocopie e vuole sapere che è successo?».

Immagino ne valga la pena.

«La firma è sparita, si è dissolta. I disegni sono integri, le firme non ci sono più».

Ha 75 anni, le pesa l’età?

«Ogni tanto, mi chiedo perché gli anni passano. E dove vanno».

E che si risponde?

«Che non lo so, ma che purtroppo tanti registi con cui vorrei fare ancora tanti bei film non ci sono più».

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Con Fellini Il cineasta riminese e Ferretti hanno collaborat­o in 10 film

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