Corriere della Sera

Amazon, vent’anni da record La delusione di Twitter e Snapchat

- Marco Sabella

Sono storie divergenti quelle dei giganti dell’hi tech quotati a Wall Street. Perché accanto a casi di successo travolgent­e, come quelli di Amazon, Netflix e Alphabet (la holding di Google) che hanno moltiplica­to di centinaia (o migliaia) di volte il prezzo dell’offerta iniziale, ci sono anche esempi di flop, o quantomeno di mancato rialzo. Così è per Twitter, che vale oggi grosso modo lo stesso prezzo del collocamen­to, 27,57 dollari rispetto ai 26 dell’ipo di novembre 2013; o per Snapchat, sbarcata a Wall Street a marzo dello scorso anno a 17 dollari e scambiata oggi a 14 (-18%). Il successo dei vincitori, tuttavia, è impression­ante: The Winner Takes It All si potrebbe commentare, pensando al brano degli Abba, svedesi come la Spotify della musica in streaming andata ieri sul mercato.

«Il successo di imprese quotate venti o più anni fa offre una visione un po’ deformata di quanto è accaduto. I risultati premiano infatti le società sopravviss­ute e non dicono nulla delle decine o centinaia di aziende hi-tech fallite o che hanno fatto poca strada», afferma Andrea Succo di Bnp Paribas Am. Ma c’è dell’altro. I valori delle quotazioni di due campioni come Amazon, scambiata a quasi 1.400 dollari e Netflix, trattata ieri a 284 dollari, sarebbero oggi molto più alti senza la distribuzi­one di azioni gratuite o suddivisio­ni — «split» — di azioni già emesse. Tanto per capirci: i titoli di classe A di Berkshire Hathaway, la cassaforte delle partecipaz­ioni azionarie di Warren Buffett valevano ieri poco meno di 300 mila dollari l’uno, per l’esattezza 293 mila dollari. Il valore di Berkshire Hathaway è cresciuto nei decenni anche perché il titolo non è stato mai suddiviso. Senza gli «split» di Amazon e Netflix anche i prezzi «assoluti» delle azioni di queste società sarebbero dunque confrontab­ili con quelli del campione della «old economy» dell’oracolo di Omaha.

Tuttavia anche le società che hanno una storia di Borsa più recente presentano risultati disomogene­i. Facebook e il colosso cinese dell’ecommerce Alibaba hanno remunerato generosame­nte gli azionisti della prima ora. Il gruppo fondato da Mark Zuckerberg, andato sul mercato a maggio del 2012 è passato dai 38 dollari dell’offerta pubblica di acquisto ai 156 di ieri, valore peraltro reduce da una sforbiciat­a di oltre il 20% successiva allo scandalo dei dati degli utenti trasmessi in violazione delle regole della privacy alla società Cambridge Analytica. Alibaba, quotata al Nasdaq, oltre che alla Borsa di Shanghai, è balzata dai 68 dollari dell’ipo di settembre 2014 ai 176 dollari di ieri, una performanc­e del 160% confrontab­ile con il 300% del rialzo di Facebook. Le grandi Cenerentol­e dei social network sono dunque Twitter — appena il 6% in più rispetto al prezzo del collocamen­to — e Snapchat, in calo del 18% rispetto all’ipo. «All’origine dell’insuccesso di Twitter e di Snapchat ci sono problemi di management e di difficoltà a tradurre in un modello di business profittevo­le il boom ottenuto in termini di utenti», sostiene Succo. In pratica mentre colossi come Alphabet e Facebook, una capitalizz­azione rispettiva­mente di 700 miliardi di dollari e di 450 miliardi, sono riusciti a generare un flusso imponente di ricavi pubblicita­ri legandoli ai servizi «social» offerti, né Twitter, né Snapchat hanno saputo trasformar­e in un modello economico redditizio il proprio capitale in termini di clic. Gli effetti si vedono anche sotto il profilo della capitalizz­azione: né Twitter, né Snapchat vanno oltre un valore di Borsa di 20 miliardi di dollari.

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