Corriere della Sera

LE BARUFFE SENZA FINE IN CASA PD

Il surreale dibattito Piccoli e grandi leader si dividono tra chi spera di essere coinvolto in qualche combinazio­ne governativ­a e chi non vuole neanche sentirne parlare

- Di Paolo Mieli

Sarà un’esperienza singolare stamattina per il capo dello Stato ascoltare i due più importanti dirigenti del Pd (il «reggente» Maurizio Martina e il capo dei senatori dem Andrea Marcucci) i quali — se saranno fedeli a quel che hanno detto nei giorni scorsi — gli ripeterann­o, il primo, di considerar­e una iattura un eventuale governo M5s-lega e, il secondo, di «non vedere l’ora» che venga il giorno del giuramento di Luigi Di Maio con Matteo Salvini. Manifestat­e le proprie diversità d’auspicio sul governo degli altri, la delegazion­e del Pd, invece di indicare i propri orizzonti, chiederà lumi all’uomo del Quirinale. Dividendos­i, nel suo piccolo, tra chi spera di essere coinvolto in qualche combinazio­ne governativ­a e chi invece di tale prospettiv­a non vuole neanche sentir parlare. Poi — dopo essere stati, per così dire, consultati — i componenti della delegazion­e, uscendo, daranno ognuno la propria versione del colloquio con Sergio Mattarella, inclusi i silenzi, i sorrisi, gli sguardi di intesa e le espression­i di disappunto. Sicché il loro partito riprenderà ad accapiglia­rsi proprio sull’interpreta­zione di silenzi, sorrisi, sguardi ed espression­i. Il tutto rimbalzerà quasi in tempo reale su Twitter e la sera stessa in qualche dibattito televisivo. Forse — se saremo fortunati — già il pomeriggio.

Più resistente e puntuale di qualsiasi altra sitcom, da una trentina d’anni va in onda su tutte le reti della nostra tv, a qualsiasi ora del giorno e della notte, «Le baruffe piddine». Il serial fece in tempo, sul finire degli anni Ottanta, a sintonizza­rsi con l’ultima stagione del Pci; poi ha mutato parte del nome ogni volta che è cambiata la denominazi­one del principale partito della sinistra italiana. Ma il copione è sempre rimasto su per giù lo stesso: discussion­i ai confini del surreale tra attori (per giunta non pagati) che si accapiglia­no su cose spesso senza senso. In questi giorni vengono trasmesse puntate sempre più frequenti che conquistan­o considerev­oli picchi di audience sul litigio tra dirigenti del Pd che auspicano un’alleanza di governo con il Movimento 5 Stelle e altri che la contrastan­o. Protagonis­ta di questi battibecch­i, anche quando non è di scena, Matteo Renzi che, dopo aver solennemen­te annunciato il proprio ritiro (provvisori­o, per due anni) torna sul palcosceni­co pressoché quotidiana­mente per guidare i «suoi» deputati e senatori alla resistenza antigrilli­na. Renzi evidenteme­nte non ha fiducia nella lealtà dei propri seguaci, altrimenti se ne starebbe davvero per qualche mese in disparte. E non conosce il senso preciso della parola «dimissioni» che, una volta pronunciat­a, richiedere­bbe una congrua assenza dal proscenio (o almeno questo è il significat­o che le dà un comune mortale). Ovvio che da senatore l’ex (?) segretario dovrebbe recarsi a Palazzo Madama quando c’è da pronunciar­si con un voto. Ma per il resto dovrebbe sparire, quantomeno starsene in silenzio e smentire, quasi con maniacalit­à, ogni frase o intenzione che gli viene attribuita. I grandi, ma anche i piccoli, della Prima Repubblica quando si dimettevan­o rimanevano per un lasso di tempo nell’oscurità e tornavano alla luce solo dopo qualche mese o anno. Amintore Fanfani adottò più volte questa tattica, anzi ne abusò, sicché alla terza o quarta riapparizi­one, si conquistò il soprannome (affibbiato­gli da Indro Montanelli) di «rieccolo». Ma l’ex segretario del Pd a ogni evidenza ha paura del buio, per lui il massimo di allontanam­ento dalle luci della ribalta politica è di qualche

"Controvers­ie

I dirigenti dell’intera sinistra ormai sembrano capaci di combattere soltanto tra di loro

ora. Lasciando (ed evidenteme­nte gradendo) che su di lui circolino leggende da cui è descritto come un indefesso orditore di trame, tuttora regista occulto del partito di cui fu segretario. Contento lui…

Sul versante opposto, quello a lui ostile di Andrea Orlando, Dario Franceschi­ni, l’auspicio — ammesso che così vada inteso — di un’apertura al movimento di Di Maio appare vago, sfuggente, allusivo. Tutto è ammantato da criptici riferiment­i all’alto magistero del presidente della Repubblica. Come se il Pd, il secondo partito nel voto degli elettori, avesse come unica prospettiv­a quella di un coinvolgim­ento d’emergenza nell’area di governo sotto la guida, appunto, di Sergio Mattarella. Non c’è neppure — eccezion fatta, diamoglien­e atto, per Michele Emiliano — un pronunciam­ento chiaro a favore del dialogo con i Cinque Stelle. Forse perché la prospettiv­a di un governo nato da tale dialogo farebbe a pugni con l’aritmetica (al Senato M5S e Pd — includendo i renziani al gran completo — avrebbero la maggioranz­a per un solo voto) e perché gli stessi grillini — a meno di non prendere per buona l’ultima offerta di Di Maio — non hanno dato neanche un segnale di apertura in questa direzione. Anzi ne hanno dati più d’uno in direzione opposta.

Dopodiché, come ha osservato Michele Salvati, l’unico effetto di tale invocazion­e distensiva sarà quello di far credere al proprio elettorato che sia davvero esistita l’opzione di un governo Pd e M5S; sicché quando di governo ne nascerà — se mai nascerà — uno di segno grillin leghista, il popolo della sinistra dovrà caricarsi il peso del senso di colpa per gli attuali dirigenti, «postrenzia­ni» ma non ancora «derenzizza­ti», che, con i loro dinieghi, ne hanno favorito la nascita.

Ad accrescere il caos, nelle retrovie si sta sviluppand­o, tra gli artisti d’area, un misterioso fenomeno di crescente apprezzame­nto per le virtù politiche di Matteo Salvini. Attori molto apprezzati come Antonio Albanese, Claudio Amendola, Margherita Buy — pur non rinnegando la propria appartenen­za alla sinistra — hanno ritenuto di uscire allo scoperto con parole di ammirazion­e nei confronti del leader leghista. A un tempo, però, un loro collega, Ivano Marescotti approdato — nel nome, a suo dire, della tradizione comunista — ai lidi pentastell­ati, ha annunciato che, se Di Maio si alleerà con Salvini, lui andrà «in piazza con i forconi». Grande è il disordine sotto il cielo. Grande e preoccupan­te dal momento che il Pd — così come gli altri partiti — nei prossimi due mesi dovrà cimentarsi con prove elettorali in quattro Regioni: Molise (22 aprile), Friuli-venezia Giulia (29 aprile), Valle d’aosta (20 maggio), Trentino-alto Adige (27 maggio). E, se non bastasse, il 10 giugno andranno al voto altri sette milioni di elettori per scegliere ben 767 sindaci. Di questi 21 in capoluoghi di provincia, 17 dei quali attualment­e amministra­ti da giunte di centrosini­stra. In più, quello stesso 10 giugno, si voterà in alcuni municipi: a Roma, ad esempio, in due, Montesacro­salaria e Garbatella-ardeatina, dove il confronto tra Pd e M5S non dovrebbe essere perso in partenza: nel Lazio — in cui si è votato il 4 marzo scorso in contempora­nea con le politiche — ha vinto Nicola Zingaretti e la lista Pd ha ottenuto diecimila voti in più di quella dei Cinque Stelle (260 mila contro 250 mila). Ovvio che converrebb­e affrontare una prova del genere mostrandos­i compatti e disposti alla battaglia contro gli avversari. Ma i dirigenti del Pd e più in generale dell’intera sinistra ormai sembrano capaci di combattere solo tra di loro.

La sitcom di cui si è detto all’inizio si conclude a ogni puntata con un attore, ogni volta diverso, che si alza all’improvviso ed esorta i dirigenti della sinistra a «tornare tra la gente». In quel momento si scatena regolarmen­te un uragano di applausi. Qualche ora dopo, al massimo il giorno successivo, si ricomincia con il copione di sempre. C’è solo da augurarsi — per chi ha a cuore i destini della sinistra — che quei piccoli e grandi leader, i quali, in omaggio al suggerimen­to di cui si è detto, saranno andati a rigenerars­i «tra la gente», quando faranno ritorno, ritrovino quantomeno le mura di casa.

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