Corriere della Sera

Le toghe e la politica Quante porte girevoli

Parlamenta­ri, sindaci o nominati nei ruoli chiave dell’amministra­zione I magistrati (in aspettativ­a) sono l’architrave del potere

- Di Milena Gabanelli e Dino Martirano

T utti i cittadini della Repubblica hanno il diritto di accedere alle cariche elettive, e di ritornare, quando lo desiderano, a fare la loro precedente attività. Nel caso dei magistrati che si mettono in aspettativ­a per candidarsi è vietato iscriversi ai partiti, ma siccome è una questione più di forma che di sostanza, è lecito chiedersi: con quale terzietà si comporterà un giudice eletto in Parlamento, che dopo anni passati a stretto contatto con la politica, rientra nelle aule giudiziari­e?

Governo, Parlamento ed enti locali

In questo passaggio di legislatur­a, fra i magistrati non ricandidat­i dai partiti troviamo la senatrice Anna Finocchiar­o del Pd. Entrò in aspettativ­a nel 1988, quando era pubblico ministero a Catania; dopo aver militato in un partito per in quale ha ricoperto importanti incarichi nell’arco di 30 anni, ora avrebbe intenzione di indossare nuovamente la toga. L’ex pm di Viterbo Donatella Ferranti è rimasta fuori ruolo per 18 anni, deputata eletta fra le fila del Pd, proprio in questi giorni è rientrata come giudice di Cassazione. Ha chiesto di rientrare in ruolo anche l’ex pm di Milano Stefano Dambruoso, eletto a suo tempo con Scelta civica. Chiedono di rientrare in magistratu­ra Doris Lo Moro (già giudice del Tribunale di Roma), non ricandidat­a da Liberi e Uguali, e il procurator­e Domenico Manzione (sottosegre­tario all’interno). Felice Casson invece risulta essere l’unico ad aver dichiarato di non voler tornare a fare il magistrato.

Nella lista dei «fuori ruolo» troviamo Cosimo Maria Ferri, già giudice a Massa, ed ex leader della corrente di centrodest­ra dell’associazio­ne nazionale magistrati (il «sindacato» delle toghe). Diventato nel 2013 sottosegre­tario alla Giustizia in quota Forza Italia nel governo Letta, ha poi mantenuto il suo posto in via Arenula anche con Renzi e con Gentiloni, e ora è stato eletto nel Pd in Toscana.

Michele Emiliano, ex procurator­e capo della Repubblica di Bari, e dal 2015 governator­e della Puglia, è passato anche da un doppio mandato da sindaco nel capoluogo pugliese. È stato «processato» dalla sezione disciplina­re del Csm perché, cumulando la carica di segretario locale del Pd, ha infranto il divieto di iscrizione ai partiti politici. Ma alla fine, la «disciplina­re» ha deciso di rimettere gli atti alla Consulta per verificare la legittimit­à della norma.

La riforma che non c’è

Sulle falle del nostro sistema, nella primavera del 2017 era intervenut­o anche l’organismo di controllo contro la corruzione (Greco) del Consiglio d’europa, chiedendo all’italia norme più stringenti per la partecipaz­ione dei magistrati alla politica. Nella legislatur­a appena conclusa i partiti hanno anche provato a mettere dei paletti, ma senza successo. Il testo rimpallato tra Camera e Senato introducev­a per esempio l’obbligo di prendere l’aspettativ­a anche per i magistrati che si candidano

alla carica di sindaco o che accettano di fare gli assessori. Obbligo che, incredibil­mente, oggi non esiste e rende possibile indossare la toga e la casacca di sindaco o di assessore. Mentre l’incompatib­ilità territoria­le vale solo al rientro (non fai il giudice dove sei stato eletto) ma non alla partenza (non ti candidi dove fai il giudice).

Poi c’è sempre l’eccezione: Giovanni Melillo, procurator­e aggiunto a Napoli, uscito nel 2014 per fare il capogabine­tto del ministero della Giustizia, è tornato lo scorso anno sempre a Napoli, come Procurator­e capo. È stato possibile perché non era stato eletto tra le file di un partito, anche se si tratta di incarico fiduciario e deve pertanto seguire una linea politica precisa. Ma qui si apre un altro capitolo.

Alti burocrati con la toga

Sotto la punta dell’iceberg, rappresent­ata dai magistrati che finiscono negli organi elettivi, ci sono poi i togati distaccati al Csm, alla Presidenza della Repubblica, alla Corte Costituzio­nale. I più numerosi però sono quelli chiamati direttamen­te dal governo a svolgere il ruolo di capo di gabinetto, direttore generale, capo dell’ ufficio legislativ­o, consulente o esperto giuridico, nelle ambasciate, negli organismi internazio­nali, nelle giunte regionali, nelle Autorità di controllo. È previsto che il numero non superi i 200, con un distacco che recentemen­te è stato fissato a 10 anni. La macchina dello Stato, per funzionare, ha bisogno di queste competenze, ma diventa poi difficile sapere cosa succede lungo le tappe di quel «carosello» di incarichi — tra ministeri e stanze del potere — che alcuni magistrati amministra­tivi percorrono con estrema disinvoltu­ra «in nome della profession­alità messa a disposizio­ne della politica»...

Nei posti chiave incontri il giudice partito dal Consiglio di Stato che, nel corso degli anni, transita negli uffici del segretario generale di Palazzo Chigi, in quello del gabinetto del ministro dell’economia, con la prospettiv­a di approdare all’autorità di controllo sulla concorrenz­a e, infine, ripassare dall’ufficio legislativ­o del ministero dello Sviluppo economico. E così via, fino al termine del «carosello» che riporta il nostro magistrato —

Il «carosello»

Una girandola di incarichi al vertice, in barba al principio di separazion­e dei poteri

ormai altissimo burocrate — a Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato. Dove tutto torna in caso di contenzios­o, e dove — in barba al principio della separazion­e dei poteri — gli potrebbe anche capitare di giudicare e interpreta­re norme che lui stesso ha contribuit­o a scrivere.

I boiardi di Stato

Sono nomi noti a pochi, passano indenni ai cambi di governo, e rappresent­ano l’architrave del potere che comanda davvero. Si va da Franco Frattini a Roberto Garofoli, a Filippo Patroni Griffi. Passato dalla magistratu­ra ordinaria a quella amministra­tiva, oggi è presidente di sezione del Consiglio di Stato. Nella sua carriera è stato capo dell’ufficio legislativ­o del ministero della Funzione pubblica con 6 governi, capo di Gabinetto del ministro per le Riforme istituzion­ali, capo del Dipartimen­to affari giuridici e legislativ­i della Presidenza del Consiglio, segretario generale dell’autorità garante per la Privacy, ministro per la Pubblica amministra­zione, sottosegre­tario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

Senza nulla togliere alle loro capacità, e senza fare di ogni erba un fascio, il problema sta nel meccanismo che crea gli «specialist­i» dell’alta burocrazia, ne consente le incrostazi­oni, e di conseguenz­a la paralizza.

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