Corriere della Sera

Il cambio di rotta di «Zuck» La fede nell’algoritmo vacilla anche nella Silicon Valley

- Di Massimo Gaggi

Il Mark Zuckerberg che, dopo lunghi silenzi, accetta il confronto con la stampa e col Congresso Usa ed ammette, in un colloquio-confession­e con uno dei suoi critici più severi, Ezra Klein, che per rimettere a posto le cose a Facebook ci vorrà molto tempo, anni, sembra una persona diversa dal giovane imprendito­re che ha costruito a passo di carica la più grande rete sociale del mondo col metodo sintetizza­to nel suo celebre motto: «Muoviti velocement­e e rompi molte cose».

Difficile respingere la tentazione di vedere nel cambio di rotta di quello che lo storico Niall Ferguson ha definito il Napoleone del Terzo millennio una sorta di ritirata tattica per sottrarsi all’assedio: prima l’attacco dei media (tanto la stampa tradiziona­le quanto i siti tecnologic­i). Poi la levata di scudi di una politica per troppo tempo inerte, che ora minaccia di regolament­are le compagnie di Big Tech. Infine le altre società della Silicon Valley, da Apple a Tesla, che hanno scaricato Facebook, accusata di procurare danni enormi a tutta l’economia digitale coi suoi comportame­nti avventati.

In realtà Zuckerberg non ha tutti i torti quando replica a Tim Cook, che si vanta di non aver mai sfruttato commercial­mente i dati degli utenti, che se non vuoi servire solo i ricchi (gli acquirenti dei costosi iphone) ma cerchi di offrire un servizio gratuito a tutti, hai bisogno di grosse entrate pubblicita­rie che non puoi che ricavare dagli utenti stessi. E sicurament­e nel calvario vissuto dall’azienda nell’ultimo anno e mezzo, dall’esplosione del Russiagate allo scandalo Cambridge Analytica, il fondatore di Facebook si è davvero pentito di alcune scelte troppo spregiudic­ate fatte in passato.

Le mosse annunciate dal gruppo california­no in questi giorni vanno nella giusta direzione e non c’è dubbio che nelle ultime tornate elettorali europee Facebook abbia sorvegliat­o con molta più attenzione l’informazio­ne politica messa nella sua rete, rispetto alla campagna per le presidenzi­ali Usa del 2016.

Ma questo non risolve tutto, né il problema è solo Facebook: Twitter è in una situazione simile, tra mea culpa dei fondatori che ammettono di essere stati degli ingenui a pensare che bastasse connettere la gente per rendere il mondo un luogo migliore, la continua scoperta di nuovi abusi, l’uso dell’anonimato in rete come un’arma micidiale, le guerre tra utenti-fantasma e la lentezza con cui i tecnici della rete identifica­no i problemi e corrono ai ripari.

I veri nodi sono due: una cultura fatta di fiducia assoluta nell’automazion­e, una vera e propria fede nell’algoritmo considerat­o la soluzione di qualunque problema, che anima molte aziende della Silicon Valley. E poi il modello di business delle reti sociali, tanto più redditizio quanto più queste società (e quelle collegate attraverso le app autorizzat­e) riescono a scavare in profondità nei dati personali dei singoli utenti e nella psicologia di ognuno di loro.

Su questi due fronti per ora non abbiamo visto cambiament­i radicali, anche se le aziende stesse cominciano a pagare il prezzo della faciloneri­a con la quale si è pensato che creando connession­i tutti sarebbero stati felici: basti pensare alla donna che l’altro giorno ha assaltato Youtube sentendosi discrimina­ta. Qui, più che il contrasto tra Zuckerberg e Tim Cook (il cui vero bersaglio, secondo alcuni, potrebbe essere non Facebook ma Google), fa riflettere il diverso atteggiame­nto di Elon Musk. Vive anche lui di tecnologia, ma scarica Zuckerberg perché Tesla e Spacex sono abituate a usarla in modo più responsabi­le visto che nei loro settori ogni errore costa vite. Da qui i moniti di Musk a trattare la tecnologia con cautela: liquidati da Zuckerberg come ingiustifi­cato pessimismo ancora pochi mesi fa, quando Facebook era già nella tempesta.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy