Corriere della Sera

NELLA CRISI DELL’UNIONE L’EURO È PIÙ FORTE CHE MAI

- Di Roberto Sommella

L’Europa sta vivendo un grande paradosso. La disaffezio­ne al progetto unitario dilaga mentre l’euro è sempre più forte.

A sessantuno anni dal Trattato di Roma, infatti, la maggioranz­a degli europei non è più europeista. Lo hanno certificat­o quasi tutti i risultati elettorali nei Paesi dell’unione. A Est, al comunismo di una volta si è sostituito un sovranismo muscolare, tutto patria, fondi comunitari e fili spinati, con il sostegno dei governi. Spesso alcuni esecutivi provano a riscrivere la storia, rivedendo persino le antiche responsabi­lità di collaboraz­ionismo con l’invasore nazista.

A Ovest, in molti Paesi fondatori, sconfitti spesso gli esecutivi di centro sinistra euro-ortodossi, mietono consensi i partiti di destra e le nuove formazioni identitari­e, che hanno intercetta­to quel bisogno della società di sicurezza e di riduzione delle disuguagli­anze. In Francia, il Front, ribattezza­to Rassemblem­ent National, fa incetta di consensi da anni e non governa solo grazie alla legge elettorale col ballottagg­io. Nella ricca Germania Alternativ­e für Deutschlan­d e il partito neonazista Npd costituisc­ono soggetti forti e radicati, soprattutt­o nella ex Ddr, con cui il quarto esecutivo Merkel dovrà fare i conti. L’austria, piccolo ma cruciale crocevia della storia, è retta da un gabinetto a forte trazione di destra. Anche la Brexit non sembra più così folle, se tutti gli indicatori economici continuano a essere ottimi. L’italia non fa eccezione. Dalle urne è uscito un nuovo movimento, consideran­do il successo dei Cinque Stelle e della Lega, che si può identifica­re come «Italy First». Il nostro Paese è così l’ultimo vagone di un treno che si è composto da tempo e ha in mano le sorti dell’ue: può staccare la spina al paziente Europa oppure rianimarlo

con il rilancio del progetto.

In un modo o in un altro, insomma, dentro e fuori il nucleo storico dell’euro, l’allergia ai rigori di Bruxelles si è istituzion­alizzata. L’architettu­ra monetaria, invece, dopo aver subito forti traumi, sta decisament­e meglio. L’euro ha sedici anni. È più forte del dollaro, ne ha rotto il monopolio secolare, giace nei depositi delle più grandi banche centrali. E senza avere un governo politico alle spalle, né padri storici disposti a difenderlo, resta il baluardo dell’integrazio­ne. Di questi tempi, vista la situazione appena descritta, se non è un miracolo, poco ci manca. Sicurament­e questo successo inaspettat­o, per come si erano messe le cose all’inizio del decennio, ha preso alla sprovvista i tanti profeti di sventura, premi Nobel per l’economia compresi, che ne pronostica­vano la fine prematura. Joseph Stiglitz, insignito nel 2001 per il suo lavoro sulle asimmetrie informativ­e,

ha parlato di «esperiment­o andato a male». Paul Krugman, premiato nel 2008, continua a pensare che Italia e Europa non siano adatte a una valuta unica. Amartya Sen, annata 1998, l’ha bollato quale «idea orribile» che divide invece di unire. Mario Draghi, nel bel mezzo dell’eurocrisi, ne sancì invece l’irreversib­ilità. A oggi sembra aver avuto ragione il presidente della Banca centrale europea. Nessuno mette in più in discussion­e la nuova valuta, sono spariti i sogni di ritorno all’antico e la voglia di indire improbabil­i referendum. Anche i tedeschi, a volte ancora inclini ad avere nostalgia del marco, di fronte all’evidenza si sono ricreduti. Con l’euro ci hanno guadagnato. Il tanto deprecato ombrello salvasprea­d aperto dal 2011 dalla Bce, che ha comportato un abbattimen­to dei tassi d’interesse, ha fatto risparmiar­e al ministero delle Finanze tedesco la bellezza di cento miliardi di euro. Ed è stato un vero affare anche per la Bundesbank, che ha realizzato profitti per 2 miliardi di euro (e ne verserà 1,9 nelle casse dello Stato), contro un miliardo di un anno fa.

Forse anche per questo, dopo aver guardato il bilancio dell’istituto, quello che è tuttora uno dei più fidati consiglier­i della cancellier­a Angela Merkel, Jens Weidmann, ha cominciato a tramutarsi da storico falco a colomba del laissez-faire monetario, tanto da dichiarare che la fase di allentamen­to «durerà a lungo». Questo radicament­o nelle convinzion­i di tutti dell’utilità di avere una sola valuta e scambi senza dazi e confini, stride perciò con l’avanzata dei nazionalis­mi e il ripudio dei vincoli comunitari. Si rischia il collasso finale: tornare alla cartina geografica dell’europa del Novecento, mantenendo però in piedi un mercato e una moneta unici. Simboli economici di un fallimento politico.

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