Gatti corsari e l’upupa portafortuna Così l’ozio ha fatto di me un etologo
Osservando gli animali impariamo a conoscerli. E ci chiediamo il perché di alcune nostre reazioni
Per anni ho tenuto rubriche sugli animali. La prima sul supplemento illustrato del «Corriere». Quando me lo proposero eccepii che fino ad allora mi avevano spedito di qua e di là per il mondo, a tentar di capire perché gli umani si amavano o si scannavano, e non m’era rimasto un grammo di materia grigia da dedicare agli animali. «Appunto — mi dissero — non ci serve un etologo, ma uno che comincia a capire e quindi è più vicino al lettore». Elementare.
Prima dello sfollamento durante la guerra non avevo mai vissuto in campagna e fu allora che scoprii tanti animali: le anitre mute, nerissime, più aggressive di un mastino. I porcospini (li avevo solo visti spiattellati sull’asfalto) che erano timidi e allegri e si lasciavano addomesticare con un po’ di frutta. Ne vidi uno combattere coraggiosamente con una vipera che fischiava furibonda e lo mordeva sul muso. Lui, senza scomporsi si leccava le ferite e continuava a preparare il colpo decisivo. Infatti con una mossa fulminea schiacciò fra i denti la testa del rettile, poi seraficamente se lo ingoiò tutto (pensai a Kipling e alla sua mangusta).
Scoprii i conigli in gabbia, con gli occhi rosa e il tremito delle labbra: la loro carne era buona in umido, ma non la toccai più quando ne vidi accoppare uno, preso per le orecchie, con una bastonata in testa (continuai a utilizzare soltanto la loro pelle arrotolata a manicotto sulle manopole della Lambretta per difendermi dal freddo e dai geloni).
Scoprii l’asettica crudeltà della gente di campagna: gli animali erano cose, come la zappa, il fieno, la trebbia. Un giorno mi richiamarono le strida metalliche di un maiale (ricordavano il tram in curva). Dopo averlo sgozzato lo appesero a testa in giù per far colare il sangue e preparare una torta stomachevole. Finalmente la bestia morì, la lavarono con secchi d’acqua bollente, la raschiarono e la pelle che affiorava sotto la sudicia crosta era bianca come quella dei levrieri nei dipinti del Settecento. Mi abituai a mangiare le rane — catturate nei fossi con la candela e lasciate nella segatura a «purgarsi» — a patto che mia madre, cucinandole, le disarticolasse, facendo perdere loro quella orrenda forma di cadaverini.
E fu allora che mi posi i primi interrogativi. Perché il maiale suscitava pietà e l’anguilla tagliata viva meno? Perché si salvava la balena spiaggiata e si buttava l’aragosta a contorcersi nell’acqua bollente? Era la mole dell’animale lo spartiacque della nostra sensibilità? Era un’idea di bellezza che salvava dalle nostre scarpe lo scarabeo e non il formicone? Ma la civetta era poco amata anche se era più bella del pappagallo. E lo scimpanzé era più mansueto e allegro dell’orso, però era l’orsacchiotto di peluche che scatenava la tenerezza dei bambini. Forse perché Disney aveva umanizzato più gli orsi dei gorilla?
Nei miei interessi di allora, dicevo, non c’era posto per gli animali. Li ho scoperti in tarda età quando, per reazione a quell’esistenza bruciata in tanti viaggi, mi sono regalato una vecchia casa in collina, dove finalmente oziare, come l’intendono Orazio o Jerome: per godersi una giornata di ozio bisogna avere un sacco di cose da fare. E io avevo un grosso arretrato di buone letture, e ascoltar musica, camminare, sonnecchiare sotto un albero, tosare l’erba, fare una grigliata per gli amici, cimentarmi temerariamente con la tavolozza. E soprattutto accorgermi degli animali. Tanti animali: primo fra tutti Boss, il pastore tedesco, ragazzo sveglio, sorprendente nel cogliere i miei umori in uno sguardo, nel capire che lo sgridavo anche a bassissima voce, per esempio sillabando: ti ho detto di farla finita.
E poi le bestie che coabitano sotto il mio tetto: gatti corsari che si presentano solo per mangiare a sbafo, soriani senza permesso di soggiorno cui ho assicurato vitto e alloggio. E la gazza ladra che mi ha scippato gli occhialini che luccicavano sul tavolo, e quando si è accorta che erano di plastica li ha lasciati cadere (e facesse altrettanto quel balordo che mi ha rubato la borsa, senza imbucare i documenti che non gli servono). E l’upupa, sissignori, l’ho vista a pochi metri, con il suo pennacchietto rosso da carabiniere e non è vero che è una nottambula, lo diciamo noi perché fa un verso lugubre e si dice che meni gramo: è una fake news, a me porta fortuna. Così, senza aver sfogliato un testo di zoologia, ma elaborando e sperimentando le mie teorie fatte in casa, ho accontentato i miei capi e sono diventato un etologo ruspante.
Durante la guerra
Sfollato in campagna, scoprii le anitre, nerissime e aggressive, e i timidi porcospini
Diverse sensibilità
Come mai salviamo la balena spiaggiata e buttiamo l’aragosta nell’acqua bollente?