«Don Pasquale» un motore che gira a mille
Il nuovo allestimento scaligero di Don Pasquale è uno spettacolo all’ultima curva. Con il rettilineo finale, da ottimo che è, diventerà eccellente, guadagnando l’elasticità e la disinvoltura che ancora gli mancano. D’altra parte, è spettacolo complesso. L’apparato registico — formidabile la scenotecnica — è un motore che gira a mille. Pochi minuti e passi da Cinecittà alla Stazione Termini, da casa al quartiere di periferia, mentre sfrecciano auto, vespe, bici: una Roma anni 50 in bianco e nero, piena di citazioni filmiche di quell’epoca (Rossellini, Fellini, Monicelli, Risi…) che ha saputo fondere riso e amarezza, ingredienti principali del capolavoro di Donizetti. Ma in questo fuoco di fila, frutto dell’estro di Davide Livermore, i cantanti sembrano parte di un meccanismo diabolico che li sovrasta, prima che interpreti a tutto tondo. Aggiungi la tensione di una prima importante ed ecco perché mancano gli ultimi cento metri. Assai motoristica, più rapida che guizzante, luminosa ma non ancora flessibile come potrebbe è la lettura di Riccardo Chailly, che valorizza non poco il senso di cantabilità dell’orchestra pur in quadro ritmicamente rigoroso. Meritati i lunghi applausi.
Salvo Renè Barbera, un Ernsto pallido, poco credibile, la compagnia è ben assortita. Ambrogio Maestri regge la sfida di affrontare una parte da basso: «abbaia» un poco quando la tessitura è grave ma è un signor Don Pasquale. Discreto il Malatesta di Mattia Oliveri. Rosa Feola è squisita Norina (ottime le colorature), ma nei pezzi d’insieme (tipo il gran concertato del secondo atto) la voce, pur bella, è piccola.