In cella l’ex capo (vicino al Pd) della finanziaria piemontese Parte l’attacco del Movimento
Ammanchi per 6 milioni. I 5 Stelle contro Chiamparino
«Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere». Il rumore di fondo della telefonata era quello del tergicristalli sul parabrezza. Era la sera del 12 dicembre scorso, la prima nevicata dell’anno. Fabrizio Gatti stava tornando a casa alla fine della sua prima giornata di «solitudine siderale».
La definizione era sua, perché sapeva bene cosa lo aspettava dopo che era emersa la notizia degli ammanchi in Finpiemonte, la società cassaforte della Regione che lui aveva diretto per quasi cinque anni, ultimo di una lunga serie di incarichi prestigiosi, tutti figli anche della sua vita precedente. Lo chiamavano «il protestante», o in alternativa il barbèt, l’appellativo storico dei valdesi di Torre Pellice. Era anche un modo gentile per sottolineare i suoi modi rigorosi, da secchione.
Il padre era stato rettore all’università veneziana di Ca’ Foscari, la madre era una Geymonat, parente del grande filosofo marxista Ludovico Geymonat. Alla scuola di via Chiesa della Salute, la storica sede del Pci torinese, era il più giovane e al tempo stesso il primo della classe. In tempi non sospetti gente che magari ha poi preso strade diverse come la renziana Silvia Fregolent, l’ex senatore Stefano Esposito, l’ex deputato di Sel Giorgio Airaudo, hanno ammesso di avere un debito affettivo, se non di riconoscenza, nei suoi confronti. Alessandro Natta prevedeva per lui un grande futuro. Con Gianni Cuperlo condivise un percorso comune nella Federazione giovanile del Pci e un’amicizia ancora attuale.
La scelta di cambiare vita e diventare manager dopo una esperienza da assessore enfant prodige nella prima giunta guidata da Valentino Castellani sorprese i suoi compagni di viaggio. Fabrizio Gatti in realtà non se ne andò mai via. Gli incarichi che ricoprì nei trent’anni seguenti furono una prosecuzione della politica con altri mezzi. Era diventato il fiore all’occhiello del Pd manageriale, un nome del quale vantarsi. I suoi consigli e il suo appoggio contavano molto. La stima nei suoi confronti era trasversale. Nel 2012 fu l’allora governatore, il leghista Roberto Cota, ad affidargli Finpiemonte. La nomina definitiva venne poi ratificata dal suo successore Sergio Chiamparino, che lo conosceva dai tempi del Pci-pds.
Fino a quel 12 dicembre. Fino all’arresto di ieri, che conferma le peggiori illazioni, una storia di ammanchi per sei milioni di euro e falsi bonifici, soldi distratti da Finpiemonte «per scopi del tutto estranei all’attività» della finanziaria della Regione, usati per coprire un proprio investimento sbagliato, il tentativo di salvare dal fallimento una società della quale era amministratore di fatto.
Laura Castelli, la parlamentare nel cerchio magico di Luigi Di Maio che dà la linea su Torino, ha subito azzannato il Pd, ad arresti ancora in corso. «Fatti gravi, per i quali la politica che ha amministrato fino ad ora non può più stare in silenzio e far finta di non avere responsabilità. Quei posti sono sempre stati frutto di lottizzazione politica e ora questo atteggiamento deve finire». Il gruppo M5S in Regione ha perfezionato l’attacco, chiedendo una Commissione d’inchiesta su Finpiemonte. «Sergio Chiamparino e il Pd non possono continuare a fare orecchie da mercante». Forza Italia ha usato toni meno duri, con l’unica eccezione dell’ex governatore Enzo Ghigo. «Al posto di Chiamparino» ha detto «mi dimetterei».
Lo stillicidio è appena cominciato. E le gocce sono destinate a cadere sulla testa dell’attuale presidente della Regione, l’ex sindaco di Torino attuale plenipotenziario del Pd, impegnato in una lotta contro le fazioni interne al proprio partito. Poco importa la presunzione di innocenza e il fatto che la scoperta e la denuncia del buco in Finpiemonte siano giunte dal successore di Gatti, nominato proprio da Chiamparino. «In politica il sospetto è già una condanna» disse l’ex enfant prodige dei democratici quella sera che venne giù tutto. Le carte che proverebbero gli ammanchi sono state trovate in un armadio della sede di Finpiemonte. La storia non finisce qui. Ieri su Torino splendeva il sole. Ma per il Pd era come se stesse diluviando.
La carriera
L’enfant prodige della politica torinese da trent’anni si occupava di amministrazione