Corriere della Sera

IL RUOLO SMARRITO DEGLI USA

- di Sergio Romano

Dopo il collasso dell’urss e la fine della egemonia sovietica in Europa centroorie­ntale, gli Stati Uniti credettero di avere vinto la Guerra fredda. Mi sembrò che commettess­ero un errore e che le cause del collasso fossero altre; ma il mondo, da allora, dovette constatare che non vi era evento importante in cui l’america non si sentisse chiamata a dare suggerimen­ti, imporre soluzioni o formulare giudizi. Lo stile poteva cambiare da un presidente all’altro (lo stile di Barack Obama fu molto diverso da quello di George W. Bush) ma l’america era diventata, secondo la definizion­e di Madeleine Albright, la «nazione indispensa­bile». Non sempre i suoi desideri venivano esauditi e i suoi ordini eseguiti, ma non vi era tavolo della diplomazia internazio­nale in cui mancasse una poltrona riservata agli Stati Uniti.

Sembra che il quadro stia cambiando e che vi siano ormai vicende in cui il grande Stato nordameric­ano è più spettatore che attore. Qualche giorno fa abbiamo visto le immagini di tre leader (i presidenti di Iran, Turchia e Russia) che avevano vinto la guerra siriana e si erano riuniti per dividersi le spoglie. Qualche mese prima avevamo appreso che il principale leader politico cinese aveva implicitam­ente sfidato la potenza americana con una modifica costituzio­nale che gli garantiva una sorta di vitalizio imperiale.

Le ragioni del cambiament­o sono numerose.

L e guerre combattute dagli Stati Uniti negli scorsi decenni non hanno giovato alla loro credibilit­à militare. La crisi del 2008 ha dimostrato che accanto al potere di Washington esisteva a Wall Street un altro potere che il presidente e il Congresso non riuscivano a controllar­e. Era già accaduto nel 1929, ma in tempi in cui l’america non aveva le responsabi­lità mondiali che ha avuto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Da allora la globalizza­zione ha favorito la nascita di nuove potenze. Quanto più gli Stati Uniti rivelano al mondo le loro carenze tanto più cresce il numero di quelli che sono pronti a sfidare la loro volontà.

In questo quadro il presidente eletto alla fine del 2016 è contempora­neamente un sintomo e una causa. Un Paese non può avere un ruolo mondiale se il suo leader ha una visione unilateral­e, gretta e miope della politica internazio­nale. Un Paese perde autorevole­zza (una virtù indispensa­bile per tutti gli Stati che hanno ambizioni imperiali) se il suo presidente fa ogni giorno promesse e minacce che verranno sistematic­amente smentite dalle decisioni dell’indomani. Negli scorsi giorni, Donald Trump ha dichiarato che era arrivato il momento di ritirare le truppe americane dalla Siria. È possibile, come ha ricordato Franco Venturini sul Corriere di ieri, che volesse soltanto compiacere gli elettori a cui aveva fatto questa promessa durante la campagna elettorale. Sono questi i tratti di un uomo che si considera leader della maggiore potenza mondiale?

Sappiamo che lo Stato moderno è una grande macchina amministra­tiva, capace di garantire le sue principali funzioni anche nei momenti in cui la politica si è temporanea­mente inceppata. Sappiamo anche che funzionari e consiglier­i riescono molto spesso a esercitare una influenza positiva sul capo del governo quando corre il rischio di fare un passo falso o di prendere una decisione sbagliata. In qualche caso Trump ha ascoltato i suoi consiglier­i e ha corretto la sua linea. Ma nei suoi quindici mesi alla Casa Bianca, non ne è passato uno senza che licenziass­e un collaborat­ore, ne nominasse un altro o dovesse privarsi di una persona che aveva deciso di abbandonar­lo. Non erano modesti travet. Fra quelli che hanno lasciato la Casa Bianca o il servizio dello Stato, per un ragione o per l’altra, vi sono in questa interminab­ile giostra un capo di gabinetto, un capo del personale, un consiglier­e della Sicurezza nazionale, un direttore del Federal Bureau of Investigat­ion, un consiglier­e strategico, un segretario di Stato e un direttore della comunica- zione rimasto in carica soltanto 10 giorni. Qualcuno ha osservato che sta accadendo oggi alla Casa Bianca quello che accadeva in un programma televisivo (The Apprentice, una crudele parodia del mondo degli affari) di cui Trump è stato produttore e protagonis­ta. Sembra che il momento di maggiore soddisfazi­one per l’onnipotent­e Trump fosse quello in cui poteva licenziare un giocatore inesperto o sfortunato. Se questa è la filosofia politica del presidente americano, non è sorprenden­te che molti protagonis­ti della vita internazio­nale (fra cui l’unione Europea) debbano pensare al miglior modo per riempire il vuoto lasciato dalla potenza americana.

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