Corriere della Sera

L’ARBITRO? DA NOI SARÀ SEMPRE «ARBITRARIO»

Muti: «Il mio ‘68? Io né di destra né di sinistra»

- di Aldo Grasso di Valerio Cappelli

Tempi duri per gli arbitri, nonostante la Var. Una volta, con gesti inequivoca­bili, ci si accontenta­va di avvertirli che le loro signore non conducevan­o una vita coniugale irreprensi­bile. Adesso, invece, vengono loro recapitati plichi con pallottole. È la denuncia di Marcello Nicchi, il capo degli arbitri italiani: e poi intimidazi­oni (specie nei settori giovanili), denunce in tribunale per presunti errori arbitrali, ritardi nei rimborsi spese.

Pallottole Il capo dei fischietti Nicchi le ha ricevute per posta: chi giudica è nemico

L’arbitro è arbitrario per definizion­e, il sospetto la sua ombra; difficile che le sue decisioni coincidano con quelle di noi tifosi. Nel suo incantato El futbol a sol y sombra, Eduardo Galeano scrive: «Nel 1872 apparve l’arbitro. Fino ad allora i giocatori erano stati giudici di sé stessi e loro stessi sanzionava­no i falli che commetteva­no. Nel 1880, cronometro alla mano, l’arbitro decideva quando terminava la partita e aveva il potere di espellere chi si comportava male, ma dirigeva dal di fuori gridando».

Se nel calcio regnasse il fair play non ci sarebbe bisogno dell’arbitro, ma il sogno è svanito: per questo, lo si consideri giudice o celebrante o «cornuto», il «fischietto» è consustanz­iale al gioco. Verrebbe da dire, alla vita.

Citare stanca. Ma questa di Ennio Flaiano è perfetta, pare scritta oggi: «L’italiano ha un solo vero nemico: l’arbitro di calcio, perché emette un giudizio».

A Milano, Riccardo Muti ha avuto la consacrazi­one della maturità artistica. Ma è a Firenze che è cominciata la sua avventura musicale. Erano anni di passioni e di furori: il pubblico aperto alle rarità, gli scioperi, gli spettacoli di Luca Ronconi. Grandi discussion­i ideali. Subito dopo il ’68, Riccardo Muti a 27 anni mette le sue prime radici come direttore stabile del Maggio Musicale a Firenze, dove rimase dal settembre ’69 all’ottobre ’81. Nel mezzo, gli esordi alla Scala, con i Berliner, a Salisburgo. Ma il suo debutto avvenne nel 1968: per festeggiar­e il cinquanten­ario, l’11 luglio all’opera fiorentina dirigerà il Macbeth di Verdi in forma di concerto.

Partiamo dal suo primo concerto?

«Solista era Sviatoslav Richter, un gigante del pianoforte; volle mettermi alla prova e mi invitò a suonare alla tastiera il programma, Mozart e Britten. Disse all’interprete: se dirige come suona, accetto di collaborar­e con lui. Iniziai le prove, l’atmosfera in teatro era turbolenta, non c’erano i vertici, si discuteva della fisionomia del Festival, aleggiava una minaccia di sciopero. Imposi la necessità di un ordine, sconcertai alcuni dell’orchestra ma convinsi altri che forse avevano trovato in quel giovane direttore colui che poteva rimettere in piedi un situazione confusa. Si creò un’intesa musicale, rispetto e simpatia, ma i concerti furono annullati per lo sciopero».

E poi?

«Il sovrintend­ente uscente, Remigio Paone, impresario dal fiuto lungo, colse l’occasione di spostarli al Festival, ed ebbero un successo straordina­rio. In sala c’era un solo critico, Leonardo Pinzauti, scrisse: un buon concerto di un giovane che non conosco, potrebbe risolvere l’annosa questione del direttore musicale. Cosa che avvenne. Lasciai l’insegnamen­to al Conservato­rio di Milano e presi una casina rosa a Firenze, in via Rucellai 15. Lì sono cresciuti due dei miei tre figli. Acquistai un piano che, non avendo una lira, pagai a rate, in due anni. Oggi che potrei permetterm­i uno Steinway, non oso abbandonar­e il mio vecchio amico, su cui studio da 50 anni». Nel suo esordio, «L’africana» di Meyerbeer.

«Ero riluttante, il direttore artistico Roman Vlad per convincerm­i suonò alla mia porta e senza nemmeno dirmi buonasera si mise a suonare e a cantare arie di quell’opera. Dopo una settimana ci fu la Cenerentol­a di Abbado-ponnelle, questo per dire il peso del Festival di allora».

Lì nacque la leggenda di Abbado di sinistra e Muti di destra?

«Io non sono mai stato di destra o di sinistra. Sono molto indipenden­te e forse in quel periodo non appartener­e a una certa consorteri­a significav­a essere dalla parte opposta: se non sei con noi sei contro di noi. Ho sempre avuto un bel rapporto con i vari sindaci e con la città, che mi ha accolto quando ancora non ero nessuno. Ci fu un momento in cui, eletto un primo cittadino della Dc, mi fu detto che bisognava nominare come direttore artistico un personaggi­o socialista o comunista, così vuole il pacchetto, mi disse un musicista influente.

Io rimasi inorridito».

Ma i teatri musicali non sono sempre stati influenzat­i dalla politica?

«Io nella mia vita non ho mai avuto ingerenze, mai ricevuto lettere di raccomanda­zioni da deputati, senatori o ministri. L’artista non è un demagogo, invece spesso si fa demagogia, ogni azione di un musicista è politica nel senso originario della polis, non partitica. Noi siamo al di sopra delle fazioni, ma non al di fuori dei compiti e dei doveri sociali. Il ’68 ha portato a cose negative e positive, di cui oggi ci dimentichi­amo, al contrario di quelle negative. Fatto sta che più tardi, nel ’73, scrissi una lettera di fuoco in cui mi dimisi. L’orchestra stava provando e appresa la notizia d’improvviso lasciò un direttore straniero da solo, sul podio, il quale commentò: ma cosa avrò mai fatto di male? Una scena che nemmeno Fellini avrebbe immaginato. Orchestra, coro, ballo e una parte dei tecnici, solidali con me, entrarono in sciopero. Ci fu un ribaltone, venne nominato un commissari­o. Il clima politico e culturale era battaglier­o, ricordo una seduta non solo del cda ma al Comune perché Cavalleria e Pagliacci erano ritenuti una scelta conservatr­ice e anti-culturale. Io e Vlad fummo quasi messi alla gogna».

Luca Ronconi?

«Il suo Orfeo e Euridice rivoluzion­ò il teatro; il suo Nabucco risorgimen­tale fu controvers­o, uno gridò: Ronconi in Arno! Ricordo Le nozze di Figaro “di” Vitez, Ifigenia in Tauride con le scene di Manzù: mentre gli raccontavo la trama, lui disegnava la scena con un grande medaglione; e l’otello “di” Jankso in cui abbiamo dovuto ingiustame­nte rinunciare all’apparizion­e di una donna nuda, una delle prime volte a teatro…».

A Firenze cominciò tutto.

«Sì, ho profonda gratitudin­e verso questa città. Ricordo i Requiem di Verdi a San Lorenzo: la chiesa costruita dal Brunellesc­hi, i pulpiti di Donatello, le tombe medicee di Michelange­lo, l’altare del Verrocchio. Ditemi voi se non c’era da impazzire mentre dirigevo Verdi. E dov’è l’italia di allora?».

d L’atmosfera in teatro era turbolenta e aleggiava una minaccia di sciopero Imposi la necessità di un ordine ma i concerti furono annullati

d Allora acquistai un pianoforte ma non avevo una lira e lo pagai a rate Oggi potrei permetterm­i uno Steinway ma non oso lasciare il mio vecchio amico

d Rimasi inorridito da pratiche di spartizion­e: sotto il sindaco dc bisognava scegliere comunisti o socialisti

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