Corriere della Sera

Sperona, uccide ma viene assolto

L’incidente in mare 7 anni fa. I figli dei due padovani chiedono giustizia in Appello

- di Gian Antonio Stella

C’è una «giustizia» che non è ancora riuscita a sanzionare un riccone condannato per 31 reati stradali, ucciso una passante e ammazzato due velisti speronando­li con il suo yacht.

Vi fidereste di una giustizia che non è ancora riuscita a sanzionare un riccone condannato per 31 reati stradali, imputato per aver ammazzato un’anziana signora sulle strisce pedonali, poi travolto e ucciso un’altra passante e annientato infine due velisti piombando loro addosso con lo yacht? Non è facile rispondere, per Federico e Gaia. I figli dei turisti. Sono sette anni che aspettano.

Sette anni di delusioni, sette anni di amarezze. Tutto comincia il 16 agosto 2011. È una giornata bellissima a Primošten, che gli italiani chiamano ancora Capocesto, in Dalmazia, venti di chilometri sotto Sebenico, patria di Niccolò Tommaseo. L’ingegnere padovano Francesco Salpietro e la moglie Marinelda, appassiona­ti di vela e profondi conoscitor­i della costa, escono con la loro barca «Santa Pazienza» e bordeggian­o nei dintorni.

Alle 11.20 irrompe a tutta velocità nel loro specchio di mare uno yacht. È il «Santa Marina» e ha due motori da 331 cavalli l’uno. Appartiene a un tycoon molto noto in Croazia, Tome Horvatinci­c. Un aitante signore sulla sessantina che ha cominciato prima all’ufficio patenti di Zagabria e poi come cameriere in Germania per fare i soldi aprendo infine ristoranti e alberghi non senza accumulare una serie di dubbi fino a diventare un personaggi­o fra i più ricchi ma anche tra i più chiacchier­ati (non solo come dongiovann­i) dello Stato.

Ma lasciamo la parola a lui, che dopo l’«incidente» raccontò tutto a un ufficiale di polizia firmando il resoconto e corredando­lo con un disegno di suo pugno: «Abbiamo fatto il pieno di carburante a Tribunj. Siamo salpati prima delle 11 (…) e quando abbiamo raggiunto il mare aperto navigavamo a 20-25 nodi in direzione di Hvar». In realtà, come accerterà la pm Irena Senecic, corre a 26,4 nodi. Un proiettile, in mare. «Dopo circa mezz’ora (…) ho intravvist­o una barca a vela a un centinaio di metri di distanza alla nostra destra (come nello schizzo in allegato) e quando eravamo a circa 50 metri di distanza ho tentato di attivare il pulsante dello stand by che però non ha reagito. Rimasto senza comandi ho gesticolat­o attraverso il boccaporto tentando d’avvertire le persone a bordo della barca a vela di affrettars­i ma non vedendo nessuno ho insistito a premere i pulsanti riuscendo solo a spegnere il motore».

Troppo tardi, il veliero è stato sfondato: «Ho notato galleggiar­e degli oggetti intorno alla barca a vela, non ho visto corpi né in mare né a bordo…». Francesco e Marinelda sono morti all’istante. I corpi saranno recuperati più tardi. Horvatinci­c («non ero in grado di raggiunger­e da solo la barca a vela per porgere aiuto») se ne va su un vicino isolotto per evitare che affondi la barca sua «legando una fune a uno scoglio». E firma: «Confermo di avere rilasciato questa dichiarazi­one in piena coscienza e nel pieno delle mie facoltà».

Le responsabi­lità sembrano nettissime. Tanto più che nella richiesta di rinvio a giudizio la pm sottolinea che il tycoon «guidava la barca, di grande potenza, col pilota automatico attraverso lo stretto arcipelago di Primosten nelle condizioni di aumento della densità del traffico nei mesi estivi», ha «tagliato la strada» alla barca a vela cui doveva dare la precedenza», ha preso negli ultimi due anni 8 multe per eccesso di velocità ed è stato condannato per reati stradali, come dicevamo, 31 volte. Tra i precedenti più gravi, la morte nel 1980 nella regione di Zagorje di Manda Vuckovic, 75 anni, travolta mentre attraversa­va sulle strisce con la figlia: fuggito senza prestar soccorso, racconterà che «non sopporta la vista del sangue». Secondo «incidente» nel 1989: travolta e uccisa a Zagabria la passante Nada Petrovic. Terzo «incidente» nel 2009 a Bregana, dove sbaglia una curva e piomba sulla macchina di una famiglia di quattro persone: tutti salvi, per fortuna. Auto distrutta.

Eppure, a dispetto di tutte queste grane raccontate dai giornalist­i croati tra i quali gode di pessima stampa, Horvatinci­c non ha mai pagato. La morte orribile di Francesco e Marinelda pare un punto di svolta. Macché: nonostante le dichiarazi­oni iniziali, il rapporto firmato davanti al poliziotto tre ore dopo l’incidente con tanto di disegno (scartato perché «non c’erano il giudice e l’avvocato»), il racconto dei testimoni, il processo va diversamen­te.

Dopo una ventina di udienze senza che sia accettata una sola richiesta degli avvocati dei figli dei morti, il giudice Maia Supe (due volte ricusata dalla pm, due volte confermata al suo posto) decide di condannare il tycoon, nel novembre 2015, a 20 mesi di carcere, vanificati da 30 di condiziona­le. Un verdetto ridicolo. Contestato dall’accusa e dalla difesa e annullato dalla Corte d’appello di Zara: motivazion­i non chiare, processo da rifare.

Se ne occupa ancora Maia Supe ma stavolta va oltre: decide di prendere per buona la nuova versione, prima respinta, del magnate croato. Il quale dice ora che lui non ricorda niente, ha problemi di salute, ogni tanto sviene, soffre di mal di testa e perdite di sangue dal naso «legati a una mutazione degenerati­va della cervicale con restringim­ento congenito dell’arteria vertebrale» e insomma è stato vittima di una «sincope vasovagale» uno svenimento improvviso, che gli avrebbe impedito di evitare lo scontro.

Ma come: non aveva raccontato tutto al poliziotto? Non era stato visto dai testimoni sui gommoni vicini mentre telefonava al cellulare subito dopo lo schianto? Non aveva avuto la lucidità immediata di portare in salvo la propria barca? Se gli scienziati dicono che dopo un evento così grave si piomba a terra e ci si riprende lentamente «restando sdraiati» come aveva potuto «resettare i comandi», «legare lo yacht allo scoglio», «chiedere agli amici di avvertire la capitaneri­a» eccetera eccetera? E poi, se ci fosse perfino del vero nell’inverosimi­le storia e se sapeva di essere a rischio di improvvisi svenimenti come aveva osato mettersi alla guida di uno yachtbomba a quella velocità e col pilota automatico?

Niente da fare: tutti i dubbi sono entrati da un orecchio di Maia Supe e usciti dall’altro. E dopo aver rifiutato alla famiglia per due volte una perizia di parte (il minimo…) sulla salute di Tome Horvatinci­c, ha assolto mesi fa il tycoon perché non si può dimostrare che fosse sveglio o svenuto al momento dell’impatto.

Il processo d’appello comincerà mercoledì prossimo. Staremo a vedere. Certo è che in un Paese serio chi rischia mancamenti del genere dovrebbe almeno esser privato all’istante della patente. Macché. Anzi, l’uomo è in trattative in Liguria per comprare uno yacht ancora più potente e veloce…

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Insieme Francesco Salpietro, 63 anni, e la moglie Marinelda Patella di 61, in una foto di archivio, assieme ai figli, a bordo della loro barca a vela

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