ITALIANI FRANCESCO MICHELI
anche la notte. Dunque era la mamma che guidava, per così dire. Sceglieva scuole — per me e mio fratello prima il San Carlo, poi il Manzoni e il Beccaria —, sceglieva le sezioni, in un certo modo sceglieva anche gli amici. Agiva per una sorta di istinto, direi, non perché avesse programmato delle scalate sociali. Voleva che studiassimo, che ci impegnassimo, che non perdessimo tempo, con il risultato che a 14 anni ho cominciato a darmi da fare con lavoretti vari: sono stato fattorino, scrutatore del Totip, comparsa alla Scala, rivenditore di tappeti, commerciante di olii lubrificanti, pianista al Kursaal di San Pellegrino Terme… Pur di racimolare qualche soldo, non perché in casa mi mancasse qualcosa ma per ansia di indipendenza».
Poi c’era anche un nonno…
«Sì, il padre di mia madre: era un filosofo, un prete spretato, convertito poi al giornalismo. Massone e autore di libri sulla massoneria, bellissimo uomo. Personaggio affascinante, di vastissima cultura, un letterato che alla fine divenne antiquario collezionista che raccoglieva, cioè, ma non vendeva. Viveva a Parma, in Borgo del Correggio a due passi dal Battistero dell’antelami dove, grazie ai suoi amici sacerdoti, riuscì a farmi battezzare. Quando si arrabbiava, imprecava in latino che era la sua vera lingua, tant’è vero che spesso in Duomo faceva l’interprete quando arrivava qualche prelato straniero. L’inglese allora non lo parlava nessuno e la lingua franca era proprio il latino. È merito anche di questo nonno eccezionale, che andava sempre vestito di bianco, se mi sono avvicinato al mondo dell’arte. Amava gli oggetti antichi e ne aveva accumulato in casa di ogni genere. Ricordo per esempio una grande cesta zeppa di vecchie fruste da carrettiere che teneva nell’ingresso: erano quelle che da giovane aveva strappato dalle mani dei cavallanti quando, con la sua auto del primo ’900 riusciva a superare le carrozze e i carri che non gli davano strada. Era una figura leggendaria in una Parma, che di personaggi speciali, bizzarri ne ha sempre avuti, come, del resto, tutte le città della provincia italiana».
Un’infanzia perfetta grazie all’equilibrata educazione, fortemente colta e insieme concreta, pratica, efficiente. Ma per una carriera come la sua cosa serve: lavoro indefesso, fortuna oppure amici giusti?
La famiglia
Papà passava il tempo al pianoforte, è stata la mamma a guidarci Voleva che studiassimo e che non perdessimo tempo: da scolaro iniziai a fare vari lavoretti
La nostalgia Rimpiango naturalmente certi uomini politici di dimensioni molto diverse da quelli di oggi. E poi ho il rimpianto acuto della vivacissima Milano del Dopoguerra
«Naturalmente tutte e tre le cose. Sono stato fortunato di nascere in una famiglia come la mia e già al liceo ho trovato amici speciali come, per esempio, Eva Cantarella, Guido Martinotti o Sandro Manusardi, amici che mi sono rimasti e che hanno contribuito ad aprirmi la testa. E poi il lavoro indefesso, all’inizio, direi esclusivamente per guadagnare, poi una volta raggiunta l’indipendenza — io la chiamo la pace dei sensi — per imparare cose nuove, conoscere altri mondi, per divertirmi, forse, soprattutto. A 19 anni, un mio compagno della Bocconi, Piero Ravelli, figlio di Aldo, il mitico agente di Borsa (che promettendo soldi a un SS polacco era riuscito a fuggire assieme a vari altri dal lager di Mauthausen), mi mandò a lavorare nello studio di suo padre, praticamente in sua sostituzione che, da buon marxista, di una carriera nella finanza non ne voleva sapere. L’aldone, come lo chiamavano, per mesi non mi pagò ripetendomi, anzi, che avrei dovuto essere io a pagare per stare nel suo studio. Però mi ha insegnato tutto, è davvero stato il mio maestro, e dopo tre mesi un giorno mi concesse: “Sei bravo”, e da allora iniziai a guadagnare, dopo un po’ anche molto bene».
Come dire che a poco più di vent’anni era già ricco?
«Sì e pensavo di diventare agente di cambio. Poiché serviva la laurea ripresi gli studi di Economia, non però alla Bocconi, bensì alla Cattolica dove c’erano dei corsi serali. Oggi, tuttavia, devo dire che se mi fossi attenuto a quel che si studiava allora, sarei fallito tante volte. Sono piuttosto esperto in economia e finanza, ma ho imparato tutto dal lavoro. Agente di cambio poi non lo sono diventato: l’idea di passare la vita tra titoli e obbligazioni non mi divertiva più. Dopo una decina di anni lasciai perciò l’aldone».
Le tappe principali furono poi l’imi, la Montedison, all’epoca uno dei maggiori centri del potere economico italiano, la Finarte, la Sviluppo finanziaria ed e.biscom, diventata poi Fastweb. Ora, però, a «guidare» ci pensa Carlo, il figlio maggiore.
«Lui decide, e decide bene, io consiglio, propongo, suggerisco. Lui sta a Londra, ma ci sentiamo in continuazione. Non avrei voluto che i figli seguissero le mie orme perché so di essere un padre ingombrante. Poi è successo che, quando sono entrato in e.biscom ci trovai Carlo, portato lì dal mio socio Silvio Scaglia. L’altro mio figlio, Andrea, è laureato in Scienze naturali, e grazie a lui so tutto sull’allocco, un rapace notturno su cui ha fatto la tesi. Oggi però si dedica con soddisfazione alla fotografia d’arte, mestiere che ha imparato scattando istantanee di allocchi e innumerevoli altri animali».
Poi ci sono per Micheli gli impegni per così dire extra-lavorativi, i sette anni di presidenza del Conservatorio di Milano, il Consiglio di amministrazione della Scala, della Filarmonica, del Fai, del Vidas, l’invenzione del festival musicale Mito. In più, l’anno scorso, si è aggiunta la presidenza dell’accademia pianistica di Imola, la più famosa del mondo, fondata negli anni Ottanta da Franco Scala, cento alunni, molti dalla Cina...
«Vidas a parte, dove mi impegno per il dovere di restituire qualcosa del tanto che ho avuto, tutti questi altri incarichi sono legati alla bellezza del nostro Paese il cui Dna, che discende dal Rinascimento, nonostante tutto è vivo ancora. È vero che siamo circondati da esempi di orride devastazioni edilizie e di altrettanto orridi comportamenti, ma l’armonia, la grazia, l’eleganza continuano a prevalere. Mi basta andare all’accademia di Imola per rendermi conto che abbiamo tuttora straordinarie risorse di bellezza».
Rimpiange qualcosa?
«In primo luogo rimpiango naturalmente certi uomini politici di dimensioni molto diverse da quelli di oggi. E poi ho il rimpianto acuto della vivacissima Milano del Dopoguerra. Penso per esempio a cos’era la Scala di allora...».
Nel complesso la lunga navigazione è stata buona?
«Non è stata né calma né facile perché in un certo senso mi sono sempre trovato all’opposizione. Ho scardinato sistemi di potere per cui è ovvio che ci sia stato chi abbia cercato di farmi fuori finanziariamente. E ci sono stati giornali che, forse su mandato, mi hanno massacrato, anche solo giocando con i termini: da finanziere venivo trasformato in speculatore, benché l’attività esercitata sia esattamente la stessa. Tuttavia, nonostante le buriane sono sopravvissuto, e non siamo in tanti che ci sono riusciti».