Corriere della Sera

CAMPIONI SENZA SORRISO

Sportivi che inseguono per tutta la carriera una medaglia olimpica o un trofeo, però poi non riescono a goderne. «Gli atleti andrebbero preparati a reggere il peso psicologic­o di una situazione di successo». Invece il passato che torna li travolge PERCHÉ

- di Gaia Piccardi

Quanto sei felice, giovane Alina, ci siamo precipitat­i a chiedere alla regina del pattinaggi­o artistico che a fine febbraio, seduta sulla cima dell’olimpo, ci guardava dall’alto della bellissima medaglia d’oro di Pyeongchan­g. Sembrava, fino a quel momento, la favola dei Giochi invernali: ad Alina Zagitova, 15enne russa della Repubblica dell’udmurtia, gli dei del ghiaccio avevano appena consegnato le chiavi del regno di Frozen. Sarà in estasi, abbiamo pensato. Macché. Tutt’altro. Alina ha abbassato gli occhi bistrati e ricacciato indietro le lacrime, ammettendo con commovente onestà: «Felice? Mah... Mi sento vuota».

L’arcipelago delle emozioni

L’arcipelago delle emozioni umane, che affascinan­te gioco di vasi comunicant­i dalle traiettori­e imprevedib­ili. Perché i successi nello sprint, dominato per dieci anni, hanno riempito fino all’orlo il fenomenale Usain Bolt (passato alla storia dell’atletica anche per le sue clamorose feste post gara, quando trasformav­a la pista in un party a cielo aperto) e ha invece svuotato come una piscina senza tappo Yannick Noah (caduto in depression­e dopo aver conquistat­o il Roland Garros ‘83, cioè il torneo che qualsiasi tennista — a maggior ragione se francese — sogna di far suo)? Perché ci sono atleti illuminati a vita da una vittoria, anche una sola (Paola Magoni, oro nello slalom a Sarajevo ‘84, oppure la Grecia, dominatric­e a sorpresa dell’europeo di calcio 2004 battendo il Portogallo di Figo e Ronaldo), e altri che dopo aver inseguito per tutta la carriera un traguardo (Marion Bartoli, campioness­a di Wimbledon 2013 e poi basta) si chiedono: embè, tutto qui? Se il playground sportivo, qualsiasi esso sia, ricrea sotto le nostre suole quel tessuto di aspettativ­e/pressioni/talenti che l’ambiente in cui siamo cresciuti ha contribuit­o a plasmare, ha senso che la felicità nello sport duri tanto quanto la felicità nella vita di tutti i giorni. Un istante o per sempre. «Felicità è sentire di aver realizzato le proprie potenziali­tà, sapere di aver fatto appieno il proprio dovere, sentirsi bene nella propria pelle» spiega Marcella Marcone, psicoterap­euta e psicologa dello sport. Sembra semplice, ma non lo è. E allora proviamo a svelare il mistero di Thierry Henry, uno dei più forti attaccanti della storia del calcio europeo, primatista di presenze e reti con la maglia dell’arsenal, campione del mondo e continenta­le con la Francia. Caterve di gol, e nemmeno un sorriso. Mai.

Il rebus del bomber triste

Aveva sette anni, un pulcino della banlieue con gli occhi tristi e il fuoco nei piedi. «Un giorno la mia squadra vinse 6-0. Io segnai tutti e sei i gol. Corsi da mio padre Antoine: papà, hai visto come sono stato bravo? E lui, gelido: ma che dici? Non hai giocato affatto bene!». Nessuno come Thierry Henry porta incise sul volto, e nell’anima, le cicatrici dell’infanzia. In campo, nell’esercizio di quell’atto pubblico di gioia sfrenata chiamato gol, una maschera di infelicità. Dentro lo stadio che esplode, un’esultanza sempre rimasta sotto la linea di galleggiam­ento, soffocata da una vergogna che viene da lontano, con un indirizzo preciso: Les Ulis, periferia di Parigi, casa. Perché quando giocavi a pallone eri sempre così mesto, Thierry? «I miei primi ricordi con la palla includono mio padre. Mi urlava dietro, mi sgridava anche se non avevo fatto niente di male. La cosa più difficile, da ragazzino, era gestire la pressione che mi metteva addosso. Non era mai contento». Ecco perché, oltre alla maglia, indossava quella faccia. «Sembrava che io fossi triste, anche quando segnavo. Ma non era vero. È che non avevo idea di come dimostrare la mia gioia».

Ci vuole talento per essere felici. «Non è da tutti — conferma Paolo Crepet, psichiatra, sociologo e scrittore —. La felicità richiede energia,

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La felicità richiede energia, costanza, lavoro. È il punto di arrivo di una sfida, di uno sforzo. È un anelito: quando realizzi di sentirti felice, hai già smesso di esserlo

Il bambino che è dentro di noi, inoltre, ha un’atavica paura della punizione: se sono arrivato così in alto, si chiede, con quale castigo pagherò questa fortuna sfacciata?

coraggio, costanza, lavoro. È cosa rara e preziosa. È il punto di arrivo di un sfida, di uno sforzo immenso. È un anelito: quando realizzi di sentirti felice, hai già smesso di esserlo. Gli esseri umani, mediamente tarati sul minimo, non hanno voglia di fare fatica: invece di attraversa­re l’oceano per andare a conquistar­e la donna della propria vita, si preferisce mandarle un Whatsapp».

Le tre fasi di Panatta

Adriano Panatta, indimentic­ato eroe di Roma, Parigi e Coppa Davis, il triplete infilato in un’unica ruggente estate (1976), divide l’emozione della gioia in tre fasi distinte. «La prima, l’euforia per una grande conquista, dura dai 30’’ al minuto; la seconda un paio d’ore di rimbecilli­mento, durante le quali sei completame­nte scemo; la terza è il down, la malinconia. A quel punto ti senti come se avessi preso un Tavor: sei sempre scemo, ma scemo triste! Credo sia normale: diffido degli ex colleghi tennisti che erano sempre sovreccita­ti e sopra le righe. Io dopo una finale ero sfinito: fisicament­e ed emotivamen­te, vuoto». Già. Come Alina Zagitova a Pyeongchan­g.

Quel misto di chimica (l’adrenali-

na che defluisce, le endorfine che se ne vanno) e rinculo emotivo, quasi un’estasi al contrario, è lo spleen di segno opposto alla felicità. Perché succede? «Vincere va a smuovere cose profonde e mai rielaborat­e — spiega la psicologa Marcone —, fa riemergere antichi sensi di inadeguate­zza e di colpa: nei confronti di un fratello meno fortunato o di un compagno di squadra persosi per strada. Il bambino che è in noi, inoltre, ha un’atavica paura della punizione: se sono arrivato così in alto, si chiede, se finalmente ho tutto ciò che desidero, con quale castigo pagherò questa fortuna sfacciata?».

Autoboicot­taggio in agguato

Oltre che talento, quindi, ci vuole coraggio per essere felici. «Quando il campione dello sport raggiunge la vetta della montagna, non può che scendere. L’alternativ­a è rendersi conto che davanti c’è un’altra montagna, ancora più alta — spiega Crepet, autore de “Il Coraggio” e “Impara a essere felice” —. Ho conosciuto grandi attori teatrali che ruggivano come leoni sul palco e sprofondav­ano in depression­e non appena si chiudeva il sipario. Felicità è anche il riconoscim­ento di un ruolo». Non appena si spegne il cono di luce dell’evento, insomma, anche il più forte campione olimpico corre il rischio di perdersi nel buio profondo della sua anima.

Le forme di autoboicot­taggio inconscio, quando la felicità per una vittoria non è piena e autentica e consapevol­e, possono essere istrionich­e: dall’infortunio (leggero o grave) al pensiero di non essere degni di tanta abbondanza, dalla perdita di motivazion­e (l’ex numero uno del tennis mondiale Novak Djokovic sta attraversa­ndo la tempesta proprio in questi mesi) al ritiro precoce. «Sarebbe importante preparare gli atleti a reggere psicologic­amente una situazione di successo — sottolinea la dottoressa Marcone —. Lo sportivo va aiutato a prendere coscienza dei suoi meccanismi più profondi, di cui è all’oscuro». Chi riesce a godersi davvero appieno una vittoria? «Chi ha il coraggio di smettere all’apice della carriera». Flavia Pennetta, in pensione da trionfatri­ce dell’open Usa 2015, a 33 anni suonati, per esempio, senza perdere tempo: ritiro comunicato sul campo, con il cuore ancora in tumulto e la coppa dello Slam americano in mano. «Cosa potevo chiedere di più al tennis? Quanto più in su di così potevo salire? Non ho avuto dubbi sul da farsi e non ho mai avuto rimpianti dopo, nonostante le pressioni perché riprendess­i in mano la racchetta» racconta Flavia, oggi mamma del piccolo Federico avuto dal marito tennista Fabio Fognini. Un modello da imitare, un esempio di realizzazi­one a 24 carati, però non per tutti.

Il 22 agosto 2008 Alex Schwazer da Vipiteno si mette il mondo in tasca ai Giochi di Pechino: marciando la 50 km come in paradiso, vince la medaglia d’oro, con la ciliegina del record olimpico. Ma l’appagament­o per l’impresa dura il tempo di un sorriso. Schiacciat­o dalle sue stesse aspettativ­e, Alex sarà trovato positivo all’epo alla vigilia di Londra 2012, l’olimpiade dove sarebbe stato l’uomo da battere: «Non ce la facevo più, vivevo lo sport come un dovere, bastava una birra per farmi sentire in colpa...». L’insostenib­ile pesantezza dell’essere un atleta di razza. Andre Agassi («Detesto il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare» scrive nella spettacola­re biografia «Open»), Federica Pellegrini (per diventare fuoriclass­e ha sconfitto gli attacchi di panico), José Marie Perec (la gazzella dell’atletica scappata da Sydney 2000 e dal confronto con Marion Jones), Gigi Buffon (il totem che ha battuto la depression­e) potrebbero intrattene­rci a lungo sul tema. Odi et amo, che tormento.

L’esempio virtuoso di Pablito

E poi c’è lui, Pablito, il Paolo Rossi più famoso d’italia. Imperituro capocannon­iere del trionfale Mondiale ‘82 ma, soprattutt­o, depositari­o del segreto della felicità. «Ho sempre vissuto con il sorriso, i momenti belli e quelli brutti — racconta —. La vita è godere di ciò che hai, non lamentarti di ciò che non hai. L’euforia per un gol, anche quello che ho segnato nella finale mondiale alla Germania, dura qualche secondo. Il traguardo finale, invece, quello rimane e te lo ritrovi nella vita di tutti i giorni. Ma la felicità è un’altra cosa: è un modo di approcciar­si all’esistenza. È il sorriso di un figlio». Panatta è d’accordo: «I miei giorni più felici non sono coincisi con il tennis: la nascita dei figli e dei nipoti, non c’è gioia più grande». Quanto contano i genitori e l’ambiente famigliare nel modellare la materia che comporrà gli adulti? «Tutto — è la risposta di Rossi —. Ho un ricordo bellissimo dell’infanzia: mamma e papà erano persone semplici, avevamo l’indispensa­bile ma ci bastava». La Marcone conferma: «Chi è meno segnato dalla propria infanzia, per sua storia psicobiolo­gica o perché ha avuto condizioni esterne e interne ideali, riesce a vivere i conflitti con più distacco».

Per un Roger Federer che a Wimbledon piange a dirotto di felicità, ci sono centinaia di Ian Thorpe travolti dallo loro stessa grandezza. No Alina, non sei sola.

Gol e figli

Paolo Rossi: «L’euforia per un gol dura qualche secondo, la felicità è il sorriso di un figlio»

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