Corriere della Sera

LA POLITICA DEL CASSONETTO NELLE TRINCEE-PERIFERIE

Le città A Genova multa per chi fruga nella spazzatura: il decoro urbano base della convivenza democratic­a A Roma la filiera commercial­e dei rifiuti in mano ai rom

- Di Goffredo Buccini

La gestione dei cassonetti e degli scarti nelle nostre città ci dice molto sull’idea della cosa pubblica di chi governa aree di crisi complesse: periferie, geografich­e o sociali che siano, in un Paese come il nostro, che conta cinque milioni di poveri assoluti e 500 mila migranti «invisibili», spariti dai radar dell’accoglienz­a.

Ha fatto scalpore la decisione della giunta di Genova a trazione leghista di multare chi fruga nella spazzatura in centro storico, al Porto Antico e in piazza della Vittoria: la sinistra è insorta con proteste e petizioni. La giunta si avvarrà per la zona turistica anche del decreto Minniti contro il degrado urbano (pure gravato a suo tempo da polemiche). Diciamolo subito: finora l’alternativ­a era girarsi dall’altra parte, non per afflato umanitario ma per quel benaltrism­o che tutto depreca e nulla mai risolve (il vero nodo? La povertà nel mondo...). Dal punto di vista di un cittadino medio chi fruga nella spazzatura segnalerà, certo, rilevanti iniquità planetarie ma va innanzitut­to allontanat­o da quel cassonetto. Difficile non capire le ragioni di chi governa una città dove la Commission­e parlamenta­re sulle periferie stimava nel 2017 dodicimila dei 500 mila invisibili di cui dicevamo.

Semmai si può discutere l’efficacia di una multa comminata a chi mai la pagherà. Si coglie un che di declamator­io. Lo sosteneva, già a proposito del decreto Minniti, Flavio Tosi: proponendo però detenzioni amministra­tive (quattro ore di camera di sicurezza comminate dal questore), certo assai difficili da accettare per ragioni ordinament­ali prima ancora che di principio (occorre un magistrato per privarci della libertà).

In questa materia, tuttavia, una dose di pragmatism­o serve, eccome. Non solo a Genova. Ma nelle tante città che vivono condizioni simili o peggiori e nelle quali il decoro va inteso come base della convivenza democratic­a e non certo come astratto orpello ottocentes­co (democratic­amente, il decoro di una piazza permette a una vecchietta sola e magari malferma sulle gambe di andare a fare la spesa senza paura).

Distinguer­e, dunque. Lo promette l’assessore genovese Garassino: applichere­mo la delibera con umanità, dice. E in effetti il provvedime­nto è stato emendato per non sanzionare chi fruga alla ricerca di cibo (non più di due casi su dieci). C’è chi va affidato all’assistenza pubblica, sfamato e curato. Ma chi fa dei rifiuti urbani una filiera commercial­e va perseguito: basta risalire la filiera.

Roma, primo laboratori­o pentastell­ato, è un bell’esempio: qui la filiera è tutta in mano ai rom. Per ogni cassonetto romano c’è ormai un «addetto»: non un vecchietto emaciato in cerca di pane, ma un giovane rom che fruga profession­ale, sezionando indisturba­to le nostre vite scartate dai sacchetti di plastica e abbandonan­do in strada ciò che non gli interessa. La filiera dove porta? Al recupero di metalli e oggetti poi venduti in nero ai demolitori e nei mercatini abusivi: famoso è stato a lungo il mercatino del venerdì di via della Moschea, chiusa al traffico per buche (a gennaio sono infine intervenut­i i vigili). Un mezzo di sussistenz­a e riciclo? Forse, ma anche un circuito ramificato che fa dell’illegalità una pratica accettata: cui ci abituiamo pericolosa­mente, a volte contribuen­dovi. Perché poi questa filiera tollerata corre parallela a una seconda filiera molto meno folclorist­ica: quella dei rifiuti tossici bruciati nei cam- pi rom di Roma, Torino, Napoli, Milano, quattro metropoli ad alto rischio d’avvelename­nto.seguendola, si troverebbe­ro i bambini rom mandati dalle famiglie ad accendere i roghi (perché non perseguibi­li). E risalendo ancora ci si imbattereb­be in imprese italiane — spesso mafiose — che anziché pagare il dovuto per smaltire materiali tossici li affidano ai rom per pochi euro (i medesimi rom sono dunque nostri complici oltre che nostri carnefici). La Commission­e antirazzis­ta «Jo Cox» della passata legislatur­a si doleva a ragione che l’82 per cento degli italiani avesse un’opinione negativa dei rom. Ma ammetteva che si tratta di un classico processo di «avvitament­o»: illecito e stigma si rafforzano a vicenda.

Arrivando in fondo alla filiera, si potrebbero dunque liberare i bimbi da genitori che li sfruttano (l’abbandono scolastico tocca l’80 per cento), colpire imprese che praticano l’illegalità, spegnere i fuochi e bonificare le aree con beneficio per la salute dei cittadini che abitano nei paraggi (l’anno scorso a Torre Spaccata la diossina ha superato di 20 volte i limiti dell’oms per effetto dei roghi tossici).

Si può fare qualcosa? Certo. A Roma come a Genova o a Milano, con l’impiego massiccio della municipale e il ricorso a più giudici di pace contro i reati «bagatellar­i». In generale con un approccio laico e attivo. Ancora una volta, distinguen­do (non si può spazzare tutto con una botta di ruspa, occorre la pazienza del caso per caso) e dunque lavorando più seriamente. Ne sarà valsa la pena. La piccola storia dei cassonetti e degli umani che vi si affollano attorno è una bella cartina di tornasole per capire quanta fatica o quanta demagogia o quanta rimozione metterà domani chi governerà quelle trincee civili che già oggi sono diventate le nostre periferie.

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