VALE LA PENA TASSARE LE BIBITE ZUCCHERATE?
Gli esperimenti condotti finora non hanno dato risultati conclusivi. Quello che è certo è che serve una politica che contestualizzi il provvedimento
Un provvedimento spesso invocato per contrastare l’epidemia di obesità è la tassazione, sotto forma di accise, delle bevande zuccherate. Secondo uno studio apparso di recente su Jama (Journal of American Medical Association), negli Usa, sebbene il loro consumo sia diminuito negli ultimi anni, questo tipo di bibite contribuisce per il 6,5% alle calorie giornaliere negli adulti, per il 7,3% nei giovani fino ai 19 anni, per il 9% nelle minoranze etniche e per il 9-10% nelle fasce sociali a basso reddito.
Un intervento in questo senso appare quindi giustificato. In generale, secondo quanto riportato da The Lancet, che ha dedicato un’ampia analisi a questo tema sul suo ultimo numero, la tassazione su ciò che «nuoce alla salute», come anche alcol e sigarette, «è una potente risposta all’aumento di malattie non trasmissibili (come quelle di cuore e vasi, diabete, tumori eccetera)»
Fra l’altro, viene sottolineato, a beneficiarne di più sarebbero le persone con minori disponibilità economiche, dalle quali è ragionevole attendersi una riduzione più significativa dei consumi .
Lo conferma, fra gli altri, un’esperimento condotto in Libano, dove un incremento del 50% del prezzo delle sigarette ha ridotto il numero di fumatori in misura più incisiva fra le classi meno agiate, assicurandosi il gettito fiscale aggiuntivo soprattutto da quelle più benestanti. Inoltre, le fasce di popolazione con minori introiti hanno anche meno facilmente accesso alle cure e quindi sono le più esposte alle conseguenze dell’abuso di sostanze nocive.
Secondo altre correnti di pensiero, tuttavia, la tassazione per sé non basta. L’utilità delle sole accise infatti, dipende da diverse variabili. Una è la misura con cui si riflettono sul prezzo alla vendita (possono infatti essere parzialmente incorporate dal produttore). Un’altra è la cosiddetta elasticità della domanda, cioè il modo con cui il consumatore reagisce alla variazione di prezzo (risposta anelastica significa che non cambia niente, risposta elastica significa che cambia qualcosa, in più o in meno, negli acquisti della merce in questione). Per i soft drink, riporta l’articolo di Jama citato all’inizio, l’elasticità della domanda è stata valutata fra 0,8 e 1,2, quindi intorno a 1. Ciò significa che da un aumento di prezzo del 20% ci si potrebbe aspettare una riduzione dei consumi del 20% circa quando l’accisa incide interamente sul prezzo al consumatore.
Esperienze condotte in Messico (con 100% dell’accisa sul prezzo finale) e in una città della California (con percentuali diverse dell’accisa sul prezzo al consumo a seconda del tipo di bevanda), hanno dato una risposta variabile ma sostanzialmente positiva. Il consumo delle bevande tassate si è ridotto, con una risposta, nel giro di due anni, non molto lontana dalle attese e con un contemporaneo incremento della vendita di bottiglie d’acqua.
Il risultato però non è sempre lo stesso. Infatti ad aumentare possono essere non soltanto gli acquisti d’acqua, ma anche quelli di altre bevande zuccherate oppure degli alcolici.
Un’indicazione in merito l’ha fornita un’indagine condotta in Gran Bretagna e pubblicata da poco sul Journal of Epidemiology and Community Health. In questo caso la tassazione ha prodotto effetti differenti sui consumi in rapporto al contenuto di zucchero della bevanda (alto, medio o basso) e al reddito delle 32 mila famiglie prese a campione, i cui consumi sono stati monitorati per due anni. «Ne è emerso un quadro complesso da analizzare — hanno commentato gli autori —. Aumentare il prezzo delle bibite zuccherate può avere infatti come conseguenza sia l’aumento, sia la riduzione del consumo di bevande alcoliche».
Del resto la risposta dei consumatori quando si interviene sulle dinamiche di prezzo che coinvolgono prodotti in grado di indurre dipendenza è notoriamente articolata, come ha ricordato Kiersten Strombotne, esperta in economia sanitaria dell’american Institutes for Research (AIR) a Washington, D.C., intervenendo in una sessione dedicata all’economia dell’obesità durante l’ultimo Festival dell’economia a Trento.
Nell’occasione, la ricercatrice americana ha spiegato come si possano delineare diversi modelli economici in proposito. Uno ipotizza, per esempio, che il comportamento sia interamente votato al presente: in sostanza che si pensi comunque a soddisfare la dipendenza, sia essa al fumo, al cibo, all’alcol. In tal caso si produrrebbe una risposta anelastica, cioè la domanda rimarrà la stessa. Un altro modello postula che siamo sensibili al prezzo, ma non rispetto a tutte le sostanze allo stesso modo e gli effetti della tassazione sugli alimenti «obesogeni» sono meno facili da misurare rispetto, per esempio, a quelli sulle sigarette, che sono una merce singola, a proposito della quale è più facile valutare comportamenti e relative conseguenze.
Se parliamo di obesità invece su che cosa bisogna concentrarsi? Sulle calorie? Sugli zuccheri? E in questo caso quali, visto che sono presenti, per esempio, anche nei succhi di frutta, nei dolci o nei prodotto caseari?
A rendere ancora più intricato il quadro ci sono altre obiezioni avanzate da alcuni economisti. La prima è che le accise per mantenere efficacia dovrebbero cambiare ogni anno per non venire erose dall’inflazione; la seconda è che sono regressive, e quindi inciderebbero di più sulla fascia meno abbiente della popolazione. Ciò in realtà è del tutto ovvio visto che le accise sono regressive per definizione dal momento che non possono tener conto del reddito del consumatore.
La contro-obiezione è però che le stesse fasce di popolazione su cui inciderebbero di più in percentuale sarebbero anche quelle destinate a beneficiare in maggior misura del provvedimento, come si sostiene su The Lancet e come si può dedurre anche dalle percentuali sulle calorie giornaliere riportate da Jama.
A questo proposito è significativo il dato, sempre riferito sempre dalla rivista dei medici americani, che sottolinea come in alcune esperienze negli Usa (Illinois, Pennsylvania, California) il gradimento delle accise sulle bevande sia stato diverso in relazione alla chiarezza con cui è stato dichiarato il loro reinvestimento in progetti di salute pubblica.
Il quadro è quindi complesso e perlomeno si può affermare che la tassazione deve essere contestualizzata in una politica sistemica.
Questa dovrebbe prevedere, fra l’altro, un impegno serio nell’informazione. Ma anche in questo caso è inutile nascondersi dietro foglie di fico. Negli Stati Uniti, per esempio, le catene di fast-food devono scrivere l’apporto calorico dei prodotti che propongono. Un hamburger con soft drink e patatine, può valere , diciamo, 1200 calorie. Ma che cosa se ne fa di questo dato chi non sa quante dovrebbero essere le calorie«giuste» al giorno? Il che non significa, ovviamente, che segnalarle non sia un bene, ma senza una visione globale del problema dalle singole iniziative non ci si può aspettare risultati davvero incisivi.
Perché si può tassare e si può informare, ma se quando si va alla cassa di una libreria piuttosto che di un negozio di articoli sportivi (in America anche di una farmacia) si trovano tantissime «tentazioni» sotto forma di caramelle, barrette di cioccolato eccetera non ci si può aspettare molto. È necessario quindi uno sguardo non ipocrita, con una visione d’insieme
Investire sui giovani È necessario educare fin da bambini a sviluppare capacità critica e gusti sani
che rifugga da semplificazioni che se possono lucrare qualche consenso non aggrediscono, da sole, in modo definitivo, il problema dell’obesità. Soprattutto è necessario puntare sui bambini, regolando sì il mercato del cibo, ma investendo molto sullo sviluppo di una loro capacità critica, con l’educazione a gusti sani. Infine, bisogna insistere sull’importanza dell’attività fisica nelle scuole, e non solo.