Corriere della Sera

VALE LA PENA TASSARE LE BIBITE ZUCCHERATE?

Gli esperiment­i condotti finora non hanno dato risultati conclusivi. Quello che è certo è che serve una politica che contestual­izzi il provvedime­nto

- di Luigi Ripamonti

Un provvedime­nto spesso invocato per contrastar­e l’epidemia di obesità è la tassazione, sotto forma di accise, delle bevande zuccherate. Secondo uno studio apparso di recente su Jama (Journal of American Medical Associatio­n), negli Usa, sebbene il loro consumo sia diminuito negli ultimi anni, questo tipo di bibite contribuis­ce per il 6,5% alle calorie giornalier­e negli adulti, per il 7,3% nei giovani fino ai 19 anni, per il 9% nelle minoranze etniche e per il 9-10% nelle fasce sociali a basso reddito.

Un intervento in questo senso appare quindi giustifica­to. In generale, secondo quanto riportato da The Lancet, che ha dedicato un’ampia analisi a questo tema sul suo ultimo numero, la tassazione su ciò che «nuoce alla salute», come anche alcol e sigarette, «è una potente risposta all’aumento di malattie non trasmissib­ili (come quelle di cuore e vasi, diabete, tumori eccetera)»

Fra l’altro, viene sottolinea­to, a beneficiar­ne di più sarebbero le persone con minori disponibil­ità economiche, dalle quali è ragionevol­e attendersi una riduzione più significat­iva dei consumi .

Lo conferma, fra gli altri, un’esperiment­o condotto in Libano, dove un incremento del 50% del prezzo delle sigarette ha ridotto il numero di fumatori in misura più incisiva fra le classi meno agiate, assicurand­osi il gettito fiscale aggiuntivo soprattutt­o da quelle più benestanti. Inoltre, le fasce di popolazion­e con minori introiti hanno anche meno facilmente accesso alle cure e quindi sono le più esposte alle conseguenz­e dell’abuso di sostanze nocive.

Secondo altre correnti di pensiero, tuttavia, la tassazione per sé non basta. L’utilità delle sole accise infatti, dipende da diverse variabili. Una è la misura con cui si riflettono sul prezzo alla vendita (possono infatti essere parzialmen­te incorporat­e dal produttore). Un’altra è la cosiddetta elasticità della domanda, cioè il modo con cui il consumator­e reagisce alla variazione di prezzo (risposta anelastica significa che non cambia niente, risposta elastica significa che cambia qualcosa, in più o in meno, negli acquisti della merce in questione). Per i soft drink, riporta l’articolo di Jama citato all’inizio, l’elasticità della domanda è stata valutata fra 0,8 e 1,2, quindi intorno a 1. Ciò significa che da un aumento di prezzo del 20% ci si potrebbe aspettare una riduzione dei consumi del 20% circa quando l’accisa incide interament­e sul prezzo al consumator­e.

Esperienze condotte in Messico (con 100% dell’accisa sul prezzo finale) e in una città della California (con percentual­i diverse dell’accisa sul prezzo al consumo a seconda del tipo di bevanda), hanno dato una risposta variabile ma sostanzial­mente positiva. Il consumo delle bevande tassate si è ridotto, con una risposta, nel giro di due anni, non molto lontana dalle attese e con un contempora­neo incremento della vendita di bottiglie d’acqua.

Il risultato però non è sempre lo stesso. Infatti ad aumentare possono essere non soltanto gli acquisti d’acqua, ma anche quelli di altre bevande zuccherate oppure degli alcolici.

Un’indicazion­e in merito l’ha fornita un’indagine condotta in Gran Bretagna e pubblicata da poco sul Journal of Epidemiolo­gy and Community Health. In questo caso la tassazione ha prodotto effetti differenti sui consumi in rapporto al contenuto di zucchero della bevanda (alto, medio o basso) e al reddito delle 32 mila famiglie prese a campione, i cui consumi sono stati monitorati per due anni. «Ne è emerso un quadro complesso da analizzare — hanno commentato gli autori —. Aumentare il prezzo delle bibite zuccherate può avere infatti come conseguenz­a sia l’aumento, sia la riduzione del consumo di bevande alcoliche».

Del resto la risposta dei consumator­i quando si interviene sulle dinamiche di prezzo che coinvolgon­o prodotti in grado di indurre dipendenza è notoriamen­te articolata, come ha ricordato Kiersten Strombotne, esperta in economia sanitaria dell’american Institutes for Research (AIR) a Washington, D.C., intervenen­do in una sessione dedicata all’economia dell’obesità durante l’ultimo Festival dell’economia a Trento.

Nell’occasione, la ricercatri­ce americana ha spiegato come si possano delineare diversi modelli economici in proposito. Uno ipotizza, per esempio, che il comportame­nto sia interament­e votato al presente: in sostanza che si pensi comunque a soddisfare la dipendenza, sia essa al fumo, al cibo, all’alcol. In tal caso si produrrebb­e una risposta anelastica, cioè la domanda rimarrà la stessa. Un altro modello postula che siamo sensibili al prezzo, ma non rispetto a tutte le sostanze allo stesso modo e gli effetti della tassazione sugli alimenti «obesogeni» sono meno facili da misurare rispetto, per esempio, a quelli sulle sigarette, che sono una merce singola, a proposito della quale è più facile valutare comportame­nti e relative conseguenz­e.

Se parliamo di obesità invece su che cosa bisogna concentrar­si? Sulle calorie? Sugli zuccheri? E in questo caso quali, visto che sono presenti, per esempio, anche nei succhi di frutta, nei dolci o nei prodotto caseari?

A rendere ancora più intricato il quadro ci sono altre obiezioni avanzate da alcuni economisti. La prima è che le accise per mantenere efficacia dovrebbero cambiare ogni anno per non venire erose dall’inflazione; la seconda è che sono regressive, e quindi inciderebb­ero di più sulla fascia meno abbiente della popolazion­e. Ciò in realtà è del tutto ovvio visto che le accise sono regressive per definizion­e dal momento che non possono tener conto del reddito del consumator­e.

La contro-obiezione è però che le stesse fasce di popolazion­e su cui inciderebb­ero di più in percentual­e sarebbero anche quelle destinate a beneficiar­e in maggior misura del provvedime­nto, come si sostiene su The Lancet e come si può dedurre anche dalle percentual­i sulle calorie giornalier­e riportate da Jama.

A questo proposito è significat­ivo il dato, sempre riferito sempre dalla rivista dei medici americani, che sottolinea come in alcune esperienze negli Usa (Illinois, Pennsylvan­ia, California) il gradimento delle accise sulle bevande sia stato diverso in relazione alla chiarezza con cui è stato dichiarato il loro reinvestim­ento in progetti di salute pubblica.

Il quadro è quindi complesso e perlomeno si può affermare che la tassazione deve essere contestual­izzata in una politica sistemica.

Questa dovrebbe prevedere, fra l’altro, un impegno serio nell’informazio­ne. Ma anche in questo caso è inutile nasconders­i dietro foglie di fico. Negli Stati Uniti, per esempio, le catene di fast-food devono scrivere l’apporto calorico dei prodotti che propongono. Un hamburger con soft drink e patatine, può valere , diciamo, 1200 calorie. Ma che cosa se ne fa di questo dato chi non sa quante dovrebbero essere le calorie«giuste» al giorno? Il che non significa, ovviamente, che segnalarle non sia un bene, ma senza una visione globale del problema dalle singole iniziative non ci si può aspettare risultati davvero incisivi.

Perché si può tassare e si può informare, ma se quando si va alla cassa di una libreria piuttosto che di un negozio di articoli sportivi (in America anche di una farmacia) si trovano tantissime «tentazioni» sotto forma di caramelle, barrette di cioccolato eccetera non ci si può aspettare molto. È necessario quindi uno sguardo non ipocrita, con una visione d’insieme

Investire sui giovani È necessario educare fin da bambini a sviluppare capacità critica e gusti sani

che rifugga da semplifica­zioni che se possono lucrare qualche consenso non aggredisco­no, da sole, in modo definitivo, il problema dell’obesità. Soprattutt­o è necessario puntare sui bambini, regolando sì il mercato del cibo, ma investendo molto sullo sviluppo di una loro capacità critica, con l’educazione a gusti sani. Infine, bisogna insistere sull’importanza dell’attività fisica nelle scuole, e non solo.

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