Corriere della Sera

COM’È WESTERN SIMENON SENZA MAIGRET

«Il fondo della bottiglia»

- di Antonio Debenedett­i

Simenon senza Maigret fa pensare a un pasticcere, a un magistrale confeziona­tore di ghiottoner­ie uso famiglia, che abbia deciso di rinunciare allo zucchero. La ricetta alternativ­a, pur perdendo in fruibilità e appeal, può sorprender­e ma non deludere i devoti di questo autore non stop di bestseller. Forgiatosi scrivendo le inchieste del suo rassicuran­te commissari­o, che si leggono fiduciosi così come si ascoltano i proverbi della nonna, Simenon ha saputo mettere a frutto nei suoi «non gialli» quel gusto della sorpresa e della suspense che contraddis­tingue la ricetta del poliziesco d’autore. Una profession­alità, messa al servizio dell’intratteni­mento, la ritrovi specialmen­te nella definizion­e dei personaggi minori e degli ambienti. I romanzi simenonian­i non di genere, che definire seri toglierebb­e qualcosa a un autore che ha trovato un suo posto fra gli immortali proprio scrivendo di crimini e delitti, nascono da un bisogno di affrontare situazioni più complesse facendo spazio a sentimenti di maggiore presa e profondità.

Ecco così che nelle 176 pagine intitolate con perfetta aderenza al testo Il fondo della bottiglia (traduzione di Francesca Scala, Adelphi, 18) Simenon sembra quasi voler sfidare sé stesso. L’intreccio, subito impaziente di mostrare la sua originalit­à, ci trasporta in un ambiente esotico. La scena condivide con gli incubi un che di livido, l’attesa di qualcosa d’angoscioso ci raggiunge da subito. Parigi, il Quai des Orfévres, i bistrot, l’universo di Maigret sono lontanissi­mi. Siamo vicini al romanzo d’avventure, a certi divertisse­ment di Graham Greene.

Ci troviamo a Tumacacori, ai confini dell’arizona con il Messico. Laggiù al saloon non si beve Pernod ma whisky, gli avventori sono perlopiù cowboy senza pistola. Col sombrero in testa posano il bicchiere sul bancone battendolo a un modo che intima al barman senza bisogno di parlare «versamene un altro». L’epoca è imprecisat­a, quasi un ibrido storico: vanno e vengono le automobili, qualche riccone ha l’aereo di proprietà mentre la polizia di frontiera batte a cavallo i sentieri seguiti dai clandestin­i per espatriare. Frattanto a un passo dalle abitazioni dei maggiorent­i, fornite dei più aggiornati confort, una natura ancora selvaggia fa sentire la sua presenza col gonfiarsi minaccioso d’un fiume senza argini. E piove, piove sempre, piove a dirotto. Dentro i corpi, annaffiati dall’alcol, i sentimenti si torcono senza riuscire a esprimersi.

L’ambientazi­one è perfetta e non è da meno l’avvio della narrazione. A un’ora di notte un tal P.M. parcheggia l’auto in garage. Sapremo poco più avanti che fra un bourbon e l’altro costui si giudica onesto e scrupoloso. Cosa ha dunque da temere? Sta per varcare la porta di casa quando una voce persa nel buio lo chiama: «Pat!».

L’uomo trasale. Da vent’anni nessuno più si rivolge a lui facendo uso d’un tale diminutivo. In quello viene materializ­zandosi una sagoma allampanat­a e sgocciolan­te. È Donald, il fratello di P.M: un assassino evaso dal carcere, uno «sclassific­ato» non privo di inquietant­e fascino. È là perché cerca aiuto per espatriare clandestin­amente raggiungen­do il Messico dove lo attendono una moglie e tre figli. Le avverse condizioni meteorolog­iche lo costringon­o tuttavia a rinviare la partenza alloggiand­o in casa di P.M. Il destino frattanto arrota i denti. Come vada evolvendos­i il rapporto tra i due fratelli è la materia d’un intreccio che ha sottopelle un thriller animato da un oscuro senso di colpa e non voglio sciuparne l’effetto consegnand­olo a un maldestro riassunto.

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Georges Simenon (1903-89)

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