Siria, alta tensione dopo i missili
Raid di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia con oltre cento lanci sui siti chimici di Assad. Il sollievo di Mosca per i «danni limitati» Trump: missione compiuta. Ma per Putin «è un’aggressione». Scontro all’onu. La partita tra Israele e Iran
Più di cento missili, lanciati da americani, inglesi e francesi, hanno colpito i siti chimici di Assad. Mosca parla di aggressione.
«Missione compiuta», twitta Donald Trump alle 8,21 di sabato 14 aprile. Per tutta risposta una clip della televisione siriana mostra Bashar Assad mentre arriva in ufficio alle 9 del mattino. Cammina con calma attraverso i marmi rosati del Palazzo. Da solo, in abito scuro, reggendo una valigetta. Sembra più un agente assicurativo che il «mostro», l’«animale di Damasco» rappresentato dai tweet trumpiani. Messaggio chiaro: non è successo nulla, noi andiamo avanti come sempre.
Fuoco e sollievo
Il tempo dirà se l’attacco lampo nella notte lo indurrà, invece, a rinunciare all’arsenale chimico che secondo i governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia ha continuato a usare negli ultimi anni.
Sabato il mondo, da Mosca a Washington, si è risvegliato con un certo sollievo. Il raid sembra non aver fatto vittime tra i civili. E non c’è stato il temuto scontro sul campo tra i tre alleati occidentali da una parte e Russia più Iran dall’altra. Il presidente americano, non sappiamo se consapevolmente, sembra il George W. Bush del 1° maggio 2003. Niente podio, niente portaerei Abraham Lincoln, niente soldati e striscioni. La Siria al posto dell’iraq. Ma il tono è lo stesso: «L’attacco di ieri notte è stato eseguito perfettamente. Grazie alla Francia e al Regno Unito per la loro saggezza e per la loro sofisticata capacità militare. Non poteva esserci risultato migliore. “Mission Accomplished”». Nel maggio del 2003 cominciò, non finì, la guerra in Iraq.
Nel bunker di Mattis
La notte dei missili ha un protagonista assoluto: il generale James Mattis, segretario alla Difesa. Il veterano di tutte le guerre, l’uomo che una volta si presentò a una riunione di alti ufficiali in Iraq con la divisa imbrattata di sangue perché durante il percorso si era messo alla mitragliatrice per sventare un’imboscata, ha imposto calma, lucidità, dettando tempi e misure dell’intera operazione.
Ancora venerdì mattina i dubbi soverchiano le certezze. Trump, si racconta, fa volare i fogli e le mappe con i tracciati delle opzioni militari. Vuole qualcosa di «più forte». Ma in questo caso «la forza» si traduce automaticamente in «gesti politici» dalle conseguenze imprevedibili. L’ambasciatrice americana all’onu, Nikki Haley annuncia che «le prove sono sufficienti»: Assad ha sganciato barili bomba al cloro, sul villaggio di Douma, sabato 7 aprile.
Mattis, però, continua ad aspettare. Soltanto nel pomeriggio i «suoi» agenti dell’intelligence confermano: sì, Assad ha usato veleni infami, il cloro e anche il sarin.
È il segnale che sblocca l’impasse. Ma c’è ancora una cosa urgente da fare: avvisare i russi che, a loro volta, dovranno avvertire gli iraniani. Washington attiva il cosiddetto «deconflict channel» con Mosca: «Abbiamo comunicato ai russi che avremmo sorvolato lo spae zio aereo siriano, senza indicare a quale scopo», spiega nella serata di venerdì il coordinatore delle Forze armate, generale Joseph Dunford. Ma è la mossa sufficiente a circoscrivere il blitz.
Dipartimento di Stato e Difesa ripassano il programma già predisposto con francesi e britannici. Tre gli obiettivi individuati: un centro di ricerca scientifica per lo studio delle armi chimiche, nei pressi di Damasco; una fabbrica di sarin Macerie Un soldato siriano filma quel che resta di un «centro di ricerca scientifico» distrutto nell’attacco dell’altra notte vicino a Damasco. Per gli Usa si trattava di un obiettivo militare un deposito di gas, tutti e due a ovest di Homs. Le immagini girate il giorno dopo dalle tv locali mostrano macerie fumanti alla periferia della capitale. E nella tarda serata di ieri sono circolate voci su un’esplosione in una base ad Aleppo, con militari iraniani feriti. Un raid che sarebbe stato compiuto dalle forze israeliane.
La leadership Usa
Ieri mattina la portavoce del Pentagono, Dana White e il direttore dello stato maggiore Kenneth Mckenzie, elencano meticolosamente i dettagli in una conferenza stampa. Tra le 4 e le 5 di mattina sono stati lanciati 105 missili, quasi il doppio rispetto ai 59 scagliati lo scorso anno contro la base aerea di Al Shayat. L’america ha contribuito con 85 ordigni: 37 Tomahawk sono partiti da due navi nel Mar Rosso; 23 da un cacciatorpediniere nel Golfo Persico; 6 da un sottomarino e 19 dai bombardieri B-1. La Francia con 12 missili, mobilitando una fregata e i caccia Rafale e Mirage. Infine la Gran Bretagna: otto ordigni, sganciati da jet Tornado. Anche questo rivela come la leadership del Pentagono sia stata netta.
Per il Cremlino la contraerea siriana ha intercettato «la metà dei missili». Replica dalla Difesa Usa: «Le batterie siriane hanno sparato alla cieca e solo dopo che la nostra azione era terminata. Abbiamo colpito al cuore la capacità siriana di usare le armi chimiche».
Torna la politica
È ancora buio negli Stati Uniti, quando dall’altra parte dell’atlantico torna a farsi sentire la voce della politica. La cancelliera tedesca Angela Merkel propone «un format internazionale» per risolvere la crisi siriana. Anche Emmanuel Macron dice che «ora bisogna lavorare seriamente con Mosca». Ma da quel che si è visto ieri al Consiglio di sicurezza dell’onu, non sarà semplice. L’ambasciatore russo Vasily Nebenza dichiara: «Questo attacco distrugge il sistema delle relazioni internazionali e rischia di destabilizzare l’area». Risposta brutale dell’americana Haley: «La Russia maneggia il potere di veto come Assad il sarin. Se la Siria userà ancora le armi chimiche, noi torneremo a colpire. Abbiamo già il colpo in canna».