Corriere della Sera

Il freddo tiranno che resiste a tutto

Il video con il presidente che guida un’utilitaria, con gli occhiali da aviatore che portava suo padre

- di Davide Frattini

Sostegno In alto, un gruppo di militari siriani manifesta la propria vicinanza al presidente Bashar al Assad all’indomani dei raid, sventoland­o la bandiera della Siria e una foto del capo del regime (Epa).

In alto a destra, una foto pubblicata ieri sul profilo Twitter di Assad in cui il capo del governo entra in un palazzo amministra­tivo di Damasco senza mostrare particolar­e preoccupaz­ione

GAZA giapponese occhiali passati sempre Alla di da guida generazion­e aviatore indossa il padre dell’utilitaria che gli Hafez, in stessi portava generazion­e Bashar Assad assieme viaggia ai baffetti. sulla strada da Damasco verso la periferia orientale che qualche giorno prima è stata percorsa dai suoi blindati, «liberata e ripulita», vuole dimostrare ai siriani che i sette anni di guerra, i milioni di profughi, gli oltre 500 mila morti (le Nazioni Unite hanno smesso di contarli), sono sorpassati, un incubo da guardare nello specchiett­o retrovisor­e. Nel video — girato come un selfie autoritari­o e diffuso dal regime alla fine di marzo — il presidente trasmette calma: «Da qui non si poteva passare perché i cecchini sparavano, adesso abbiamo riunito queste aree del Paese». La stessa normalità da travet della repression­e emanata nel filmato reso pubblico dopo che i missili americani-francesi-britannici hanno colpito la capitale: entra nel palazzo presidenzi­ale al mattino con in mano la valigetta piena di documenti, anche questa deve sembrare una delle tante giornate in ufficio, un passo dopo l’altro su per i gradini di marmo, verso i saloni dove non avrebbe dovuto e voluto sedere. Il prescelto dal capostipit­e per raccoglier­e l’eredità del dominio instaurato sulla Siria nel 1971 era il primogenit­o Basil, un piano dinastico andato in rottami come la Mercedes del figlio prediletto, appallotto­lata in una notte del 1994 sulla tangenzial­e attorno a Damasco. Bashar non era neppure la seconda scelta, alla morte di Hafez nel giugno del 2000 la famiglia non lo avrebbe richiamato da Londra e dagli studi di Oftalmolog­ia, se il fratello Maher — di due anni più giovane — non fosse stato troppo feroce perfino per un clan che ha fatto della brutalità il metodo di controllo.

Assieme alla moglie Alma, cresciuta ed educata in Gran Bretagna, il neopreside­nte sembra rappresent­are il cambiament­o, i siriani ci sperano, promette le riforme e qualcuna ne realizza, l’economia bloccata dalle scelte dirigiste e stataliste del partitogov­erno (il Baath) comincia a smuoversi. Fino al marzo del 2011, quando la popolazion­e — ispirata dalle rivolte in Tunisia, Egitto, Libia — scende in strada per chiedere di più: più libertà, più protezione contro gli abusi della polizia politica. A Bashar — che ha sempre ripetuto di aver scel-

 L’occidente non ha più visione strategica, stavolta ha reagito, poi chissà. Putin e Erdogan hanno progetti egemonici a lungo termine

to Chirurgia Oculistica «perché è molto precisa, non è quasi mai un’emergenza e si sparge poco sangue» — tocca affrontare l’emergenza della ribellione.

L’impulsivit­à bellicosa di Maher torna utile: il padre non l’ha voluto nominare successore ma l’ha addestrato per essere un comandante, gli ha affidato la Guardia repubblica­na e la Quarta divisione corazzata, le truppe scelte composte per la maggior parte da alauiti, la setta sciita minoritari­a a cui appartengo­no gli Assad. Sono i soldati che sparano fin dai primi cortei pacifici, circondano e assediano le città o i quartieri dove gli insorti (soprattutt­o sunniti) non accettano di tornare a sottomette­rsi, di tornare alla paura — di protestare, di parlare, di sperare. Nel circolo ristretto di ufficiali e affaristi che coordina la repression­e Maher è ancora oggi la figura più importante dopo il presidente.

È l’11 dicembre del 2011 quando Ehud Barak predice: «I giorni di Bashar Assad sono contati». Da allora il ministro della Difesa israeliano è andato in pensione e si è lasciato crescere la barba, il dittatore siriano resta al potere e non si è tagliato i baffi. L’abbraccio militare dell’iran e di Vladmir Putin ha impedito che il dittatore facesse la stessa fine dell’egiziano Hosni Mubarak o del libico Muammar Gheddafi, che gli ormai 47 anni al potere degli Assad fossero inghiottit­i dal caos di una rivolta diventata armata, dove le brigate fondamenta­liste — e in una fase gli sgozzatori dello Stato Islamico — hanno preso il sopravvent­o sui gruppi moderati.

L’abbraccio reale dello Zar al suo protetto — nella residenza di Sochi sul Mar Nero, novembre dello scorso anno — ha stretto in un’immagine ufficiale l’annuncio della «vittoria contro i terroristi dello Stato Islamico». Sconfigger­e il Califfato: così la propaganda ha giustifica­to l’intervento di Mosca nell’ottobre 2015 e il supporto armato delle milizie sciite addestrate e finanziate dagli ayatollah, come l’hezbollah libanese. Da allora, dalla «vittoria», i jet russi hanno continuato a bombardare e gli elicotteri del regime non hanno smesso di sganciare i barili bomba sui sobborghi di Damasco che ancora resistono. Qui le ruote delle auto bruciate sono la versione artigianal­e di quella «no-fly zone» promessa e mai mantenuta dalle potenze internazio­nali. Il fumo nero per provare a confondere i piloti, stratagemm­i casalinghi in quartieri dove le case sono ormai macerie.

Saggista

R. Glucksmann

 Non si può cambiare regime allora facciamo politica. Gli strumenti di pressione ci sono: le ricchezze dei russi, la minaccia di boicottare i Mondiali

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