Il piano Mattis, stratega del blitz Da «cane pazzo» a pragmatico
Il «gabinetto di guerra» messo assieme da Donald Trump si è dovuto adattare al realismo del Segretario alla Difesa, James Mattis. L’ex generale dei marines, 66 anni, veterano di tre conflitti (Golfo, Afghanistan, Iraq), colto e scurrile nello stesso tempo, tormento di Barack Obama e pupillo di Henry Kissinger, è stato il regista della «notte dei missili». Il suo soprannome di battaglia era «Mad dog», cane pazzo. Si può condividere oppure no la decisione di bombardare la Siria, ma è difficile negare che nelle ultime settimane «Jim» si sia mosso con razionalità e senso della misura, ripagando la stima bipartisan con cui fu confermato al Senato, il 20 gennaio 2017: 98 voti a 1.
Il nuovo «team Trump» non ha inciso come ci si poteva attendere. Il neo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, detto «il demolitore», è rimasto imbrigliato in uno scenario iper complesso. Bolton considera l’iran il nemico uno degli Usa. E la «crisi chimica» gli era sembrata una buona opportunità per colpire duramente i presidi siriani di Teheran, alleata del regime di Damasco. Nei primi giorni Trump gli aveva dato ascolto, prospettando, con i suoi tweet, una reazione che avrebbe
L’attacco è terminato. Abbiamo mandato un messaggio molto forte a Damasco. Un deterrente per impedire ad Assad di usare ancora armi chimiche contro innocenti
Credo che il regime siriano abbia condotto l’attacco chimico della settimana scorsa contro i civili. Il governo americano aveva sufficienti elementi di intelligence
coinvolto anche gli alleati dell’«animale Assad».
Da quel momento è iniziato un confronto, anche ruvido, tra Casa Bianca e Pentagono. Mattis ha occupato anche lo spazio di politica estera lasciato sguarnito dal Dipartimento di Stato. Il Segretario designato, Mike Pompeo, è ancora alle prese con le audizioni del Senato. Il Marine del Pentagono ha fatto sponda con i britannici e poi ha presentato la sua soluzione di compromesso: un attacco solo alle infrastrutture siriane, in modo da non spezzare l’esile filo del dialogo con la Russia. A quel punto Trump si è lasciato convincere, spiazzando Bolton. Il presidente francese Emmanuel Macron si è adeguato.
Ora la politica americana sta discutendo se il presidente avesse dovuto chiedere l’autorizzazione al Congresso. Per il senatore Tim Kaine, già nel ticket con Hillary Clinton, «siamo davanti a una decisione illegale». Un’altra corrente di pensiero sostiene che l’azione di Trump sia un diversivo per distrarre l’attenzione dai suoi guai personali. In particolare il sequestro da parte dell’fbi di carte e documenti custoditi dall’avvocato Michael Cohen. Un personaggio che è un po’ «la scatola nera» degli affari, dei conti finanziari, degli intrallazzi sessuali di «The Donald». Gli agenti federali avrebbero messo le mani su conversazioni registrate tra il legale e il presidente: gli sviluppi potrebbero essere clamorosi.
Ma francamente tutto si può dire, tranne che il presidente voglia «distrarre» l’attenzione dalle indagini. Ogni giorno riserva una dose di tweet al veleno anche all’fbi. Venerdì 13 aprile ha chiamato «palla di fango» l’ex direttore James Comey; ieri ha dato del «bugiardo» al suo vice Andrew Mccabe, licenziato il 16 marzo 2018, il giorno prima che maturasse la pensione.