L’aiuto logistico da Aviano Attacco e rifornimenti, così l’italia può dare le basi
Per gli aerei spia Boeing P8 «Poseidon» che nei giorni scorsi sono partiti dalla base di Sigonella in missione di ricognizione, non c’è stato bisogno di rilasciare alcuna autorizzazione. Da martedì scorso — quando Kelly Degnan, vicecapo missione Usa a Roma è andata a Palazzo Chigi — i contatti con gli americani, i francesi e i britannici, sono stati costanti per informare il nostro governo su quanto stava accadendo. Già depositata anche la richiesta di mettere a disposizione le sei basi che si trovano sul territorio e lo spazio aereo, ma finora non c’è stata necessità di coinvolgere il Parlamento perché nessun mezzo in assetto di guerra è decollato da quelle installazioni. Da Aviano sono partiti solo gli aerei addetti alla sorveglianza delle navi. L’asse Italia-germania prevede di rimanere fuori dalla formazione di attacco, l’allerta resta comunque massimo in vista delle prossime mosse.
Lo «stato di guerra»
Nell’area che ospita la base siciliana le misure di sicurezza sono state aumentate e, come prevede la procedura, dichiarato lo stato di guerra anche ad Aviano, a Camp Darby, Vicenza, Napoli, Gaeta. Ma è da Sigonella che partono i droni Global Hawk ritenuti il principale asset Usa per le missioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione. E proprio da lì dovrebbero decollare i velivoli armati qualora si decidesse di proseguire con gli attacchi in Siria e si rendesse necessario utilizzare la postazione italiana. Un iter identico a quello seguito nell’agosto del 2016, in occasione dell’attacco degli Stati Uniti in Libia quando l’obiettivo era liberare Sirte e il ministro della Difesa Roberta Pinotti informò le Camere sul via libera a uso di basi e spazio aereo. Adesso è diversa la situazione politica del nostro Paese. All’epoca c’era infatti un governo nel pieno dei propri poteri. Attualmente l’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni è invece in carica soltanto per gli affari correnti. Ciò non esclude che possa chiedere il via libera al Parlamento, però è sin troppo evidente che si cerchi di allontanare il più possibile questa opzione.
I due comandanti
In ogni base ci sono due comandanti — uno italiano e
uno statunitense o della Nato — proprio a confermare che si tratta di «installazioni nazionali concesse in uso». Ed è esattamente questo il motivo per cui quando cominciano le missioni di attacco è necessario chiedere al governo di ottenere l’autorizzazione del Parlamento. Se si tratta di una operazione decisa dall’alleanza di cui l’italia fa parte scattano gli accordi già previsti e dunque l’iter è piuttosto semplice. Negli altri casi, quando uno o più Paesi devono utilizzare le installazioni, come accaduto la scorsa notte, viene avviata la procedura. E in casi del genere esiste un doppio binario di intervento perché, come chiariscono alla Difesa, «se la richiesta è relativa al solo “supporto logistico e per la sicurezza” come il transito, la manutenzione, il rifornimento, il via libera scatta quasi in automatico tenendo conto che l’italia fa parte della Nato». Diverso ciò che avviene se parte un attacco perché «la valutazione politica deve tenere conto anche del diritto internazionale e del rispetto delle risoluzioni dell’onu. Dunque senza l’ok del Parlamento, nessuno decolla».