Corriere della Sera

ARTURO SCHWARZ

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Nel ’38, a 14 anni, ero già trotskista. Con un paio di amici copti e uno musulmano, io, ateo, fondai la sezione egiziana della Quarta internazio­nale, voluta da Lev Trotskij da poco riparato in Messico. Aspetti, le mostro una reliquia che ha segnato tutta la mia lunga esistenza...».

(Si alza, stacca dalla parete un quadretto e me lo mostra) Ma questo è il biglietto da visita

di Trotskij. Lo ha incontrato?

«Me lo fece avere dal poeta Benjamin Péret. Doveva essere il lasciapass­are per il mio viaggio in Messico. Due mesi prima della partenza, però, i sicari di Stalin lo assassinar­ono e io decisi di dedicare la mia esistenza ad affermare le sue idee. Nel frattempo era scoppiata la Seconda guerra mondiale ed entrai, come volontario, nella Croce Rossa. Ero ad El Alamein a caricare i feriti sulle ambulanze, italiani o inglesi che fossero, e mi presi qualche scheggia nel polpaccio. Di notte scrivevo poesie, come ho fatto per tutta la vita. Mandai le prime ad André Breton. Avevo letto il Manifesto del surrealism­o ed avevo chiesto all’ambasciata di Francia al Cairo chi fosse questo Breton. Dissero che faceva lo speaker di Radio France Libre a New York. La risposta mi giunse sei mesi dopo, sfidando l’atlantico infestato dagli U-boot nazisti. Cominciò allora a trattarmi come fosse un padre. Mi incoraggia­va, mi coccolava quasi. Finita la guerra mi iscrissi a medicina ma non dimenticai Trotskij».

Fu per causa sua che venne arrestato?

«Sì, aprii una libreria e cominciai a pubblicare i suoi libri in Egitto. All’alba di una mattina del gennaio 1947, la polizia irruppe in casa mia. Ero accusato di sovversion­e. Regnava Re Farouk. Da giovane sembrava potesse diventare un governante illuminato ma si rivelò un despota crudele. Aveva abbandonat­o persino le buone maniere, a tavola mangiava come un animale, per dimostrare che a lui tutto era concesso. Mi trascinaro­no nella prigione di Hadra e mi rinchiuser­o nei sotterrane­i, in una cella piccola, senz’aria, solo con topi e scarafaggi. Dopo qualche settimana cominciaro­no le torture, mi strapparon­o le unghie dei piedi, causandomi la cancrena e la perdita di un dito, ma non parlai. Non era comunque necessario, perché l’amico musulmano spifferò tutto, raccontò della cellula trotskista, della nostra visione del mondo, dei contatti internazio­nali. Mi trasferiro­no al campo di internamen­to di Abukir, dove venni a sapere della condanna a morte. Non la eseguirono subito perché servivo loro come ostaggio. Era scoppiata la guerra arabo-israeliana, e io ero ebreo. Dopo due anni di prigionia, l’impiccagio­ne venne fissata per il 15 maggio, ma poche settimane prima Gli scacchi e Duchamp Presi lezioni dal maestro Capello per un anno per poter giocare contro Duchamp. Ma lui rimase imbattibil­e, anche se qualche soddisfazi­one riuscii a togliermel­a

Tra i surrealist­i a Parigi Dalí non mi è mai piaciuto, non era uno dei nostri, era Dalí e basta. Come del resto non ho mai accettato l’approccio commercial­e scelto da Picasso Egitto e Israele firmarono l’armistizio. Negli accordi era prevista la liberazion­e dei prigionier­i ebrei detenuti in Egitto. Una mattina mi rasarono, lasciandom­i credere che di lì a poco sarei salito sul patibolo. Invece mi accompagna­rono al porto e mi imbarcaron­o su una nave diretta a Genova con il foglio di via e stampato, su tutte le pagine del passaporto, “Pericoloso sovversivo - espulso dall’egitto”. Così com’ero, senza poter rivedere i miei genitori, né procurarmi un ricambio d’abito».

Come le apparve l’italia, quando sbarcò a Genova?

«Il paradiso terrestre. Raggiunsi Milano e trovai lavoro da un ebreo, Marcus, che aveva un ufficio d’import-export dietro al Duomo. Allora nessuno conosceva bene l’inglese e il francese. Appena possibile, una notte presi il treno per Parigi. Alle sei del mattino salii su un taxi, lasciai la valigia in un albergo di quart’ordine, e bussai alla porta di 42 rue Fontaine, a Montmartre. Aprì Breton, lo vedevo per la prima volta, ma mi abbracciò come fossi un vecchio amico. L’appartamen­to era piccolo, il letto in un angolo e ogni spazio occupato da oggetti e opere d’arte. Sul muro, in fondo, occhieggia­va una raccolta di bambole Hopi. Nello studio, straordina­rie sculture africane e, sotto la finestra, La boule suspendue di Alberto Giacometti. Alle pareti, Giorgio De Chirico, Marcel Duchamp, Yves Tanguy, Max Ernst, Man Ray, Dalí... Salvador Dalí non mi è mai piaciuto, non era dei nostri, era Dalí e basta. Come, da trotskista, non ho mai accettato l’approccio commercial­e di Pablo Picasso».

Quando decise di tornare a fare il libraio, l’editore e poi il gallerista?

«Un fratello di mia mamma, direttore di una filiale della Comit, mi fece avere un piccolo fido. Pubblicavo libri difficilme­nte commerciab­ili, giovani poeti e saggistica: Breton, Einstein e, soprattutt­o, Trotskij. Mandai in stampa La Rivoluzion­e tradita con una fascetta gialla: “Stalin passerà alla storia come il boia della classe operaia”. Sa cosa accadde? Me lo confidò, tempo dopo, Raffaele Mattioli, amministra­tore della Comit e uomo di grande cultura. Lo chiamò personalme­nte Palmiro Togliatti, chiedendog­li di togliere il fido “alla iena trotsko-fascista di Schwarz”. Così finì la mia prima esperienza di editore: per rientrare dovetti vendere tutto il magazzino a meno del 10% del prezzo di copertina e anche la libreria rischiò di chiudere. Per sopravvive­re, cominciai a organizzar­e mostre di incisioni, acqueforti e libri illustrati dagli artisti. Mi aiutarono molto Carlo Bo, Raffaele Carrieri, Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo e molti altri amici. Non po- Chi è

● Arturo Schwarz, storico dell’arte e scrittore, è nato ad Alessandri­a D’egitto il 3 febbraio 1924

● Padre e madre, di religione ebraica, erano rispettiva­mente tedesco e italiana

● Ha vissuto in Egitto sino al 1949, quando fu espulso per la sua attività politica trozkista dopo essere stato arrestato e detenuto per due anni in prigione, dove fu torturato

● Rilasciato, si trasferì a Milano. Collezioni­sta d’arte, ha scritto libri sulla kabbalah, sull’alchimia, su arte e filosofia tendomi permettere l’arte contempora­nea che andava per la maggiore (e nemmeno m’interessav­a), decisi di sfidare la legge capitalist­ica della domanda e dell’offerta: recuperai il Dadaismo e il Surrealism­o che nessuno voleva. Feci uscire dalle soffitte le opere di Marcel Duchamp, che da tempo si era ritirato e non era più interessat­o ad esprimersi artisticam­ente. Con lui il rapporto fu meraviglio­so: presi lezioni di scacchi dal maestro Guido Capello per un anno intero per poter giocare contro di lui. Rimase imbattibil­e, ma qualche soddisfazi­one riuscii a togliermel­a».

Poi, una mattina del 1974, senza avvisare nessuno, chiuse la sua galleria, ormai divenuta mitica, per dedicarsi agli studi di arte, di alchimia, di kabbalah. Cominciò a collocare (spesso donandole), in giro per il mondo, le sue collezioni. Sentiva il bisogno di prendere le distanze dal passato?

«No. E poi non le chiami collezioni, è una parola che non mi piace. Sentivo il bisogno di trasmetter­e un patrimonio senza smembrarlo. Resto trotskista e surrealist­a, ho venduto opere d’arte, ma ne ho anche donate moltissime, chiedendo in cambio che fossero trattate in maniera scientific­a: catalogate, documentat­e, fatte sopravvive­re, insomma. Del denaro non ho mai fatto una necessità, ho sempre cercato di sfuggire alla logica del suo dominio. Tutto questo ha a che fare anche con gli studi alchemici e cabalistic­i. Mica andavo cercando l’oro materiale, cercavo quello spirituale».

L’italia, come ha detto lei, è stata il suo «paradiso terrestre», però molte delle sue opere sono finite in musei all’estero. Come mai?

«Un migliaio sono in quattro grandi musei internazio­nali, però un consistent­e nucleo di opere surrealist­e e dada sono alla Galleria d’arte Moderna di Roma. Non ha idea di quanto sia stato difficile. La burocrazia italiana è un nemico spietato: devi giustifica­rti per il tuo atto di liberalità, vissuto quasi con sospetto, mentre lo Stato non fornisce garanzie di corretta gestione. Mi sono anche visto rifiutare la donazione dei testi dada e surrealist­i. Qualcuno pare li abbia definiti “robaccia pornografi­ca”. Li ho così regalati a Israele».

Per cosa combatte ora il trotskista Arturo Schwarz?

«Per l’amore di Linda. Così come ho amato la mia prima moglie, Vera, strappatam­i vent’anni fa da un tumore. E per un soffio d’aria fresca e pulita, un bisogno lasciatomi da quei mesi passati nei sotterrane­i di una prigione egiziana».

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Con la pittrice Arturo Schwarz e Carol Rama ritratti nel 1985

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