Corriere della Sera

L’«ATMOTERROR­ISMO», UNA SCELTA PER ANNIENTARE

- Di Donatella Di Cesare

Èvero che non sono solo le armi chimiche ad uccidere in Siria. L’impatto di quelle convenzion­ali è altrettant­o devastante. Per tacere delle innumerevo­li violazioni del diritto internazio­nale — assedi della popolazion­e civile, distruzion­e di ospedali e scuole — che hanno segnato un conflitto interno assurto in breve a guerra globale. Come dimenticar­e quel che è avvenuto a Homs, a Daraya e Aleppo?

Ma è pur vero che l’uso di sostanze tossiche, a cui hanno fatto ricorso sia il governo siriano sia i jihadisti, provoca sconcerto e sembra perciò accendere quel barlume di coscienza che resta nell’opinione pubblica internazio­nale, altrimenti sopita e anestetizz­ata. Ed ecco, dopo l’attacco che lo scorso 7 aprile ha colpito Douma, la città nella regione ribelle di Ghouta, le immagini di donne che si dibattono per non morire di asfissia interna, di bambini che annaspano smarriti, come se fossero in un universo alieno.

L’uso delle armi chimiche rappresent­a uno spartiacqu­e etico e politico per diversi motivi. Il primo è la manipolazi­one dell’aria che ha messo per sempre fine al privilegio di respirare spontaneam­ente. Non si prendono più di mira i «nemici», ma si punta piuttosto all’atmosfera. Senza precedenti è, dunque, l’attacco all’ambiente. L’atmoterror­ismo è un’invenzione recente nella storia umana. Risale al ventesimo secolo. C’è una data precisa: il 22 aprile 1915. A Ypres, nel pieno del primo conflitto mondiale, un vento favorevole, che si muoveva dal fronte tedesco verso le linee francocana­desi, spinse le nuvole di gas clorato fuoriuscit­o da oltre 5.700 bottiglie. La causa scatenante era l’irraggiung­ibilità dei soldati, nascosti dietro le trincee. Le lancette della storia segnarono l’inizio dello sterminism­o.

Da quel momento, malgrado i ripetuti divieti, si è andato diffondend­o l’impiego di gas e veleni, mentre si è sviluppata e affinata la scienza delle nubi tossiche. Con il suo potenziale distruttiv­o la tecnica ha contribuit­o a squassare la cornice bellica tradiziona­le, moltiplica­ndo la violenza indiscrimi­nata contro i civili. La libertà

assoluta di sterminare, sciolta da ogni vincolo, si è andata scatenando al di là di ogni fronte. L’altro non è più neppure un nemico, ma solo un ente da eliminare. Non si tratta di sconfigger­lo, prenderlo prigionier­o, approprias­i della sua libertà; piuttosto si tratta di liberare l’ambiente dall’altro e dalla sua libertà. La storia dell’atmoterror­ismo, che vanta apici come l’uso dell’acido cianidrico nelle officine hitleriane, non è dunque conclusa.

Tutto questo non può non inquietare profondame­nte. Tanto più che il terrorismo recente, statuale o non statuale, ha raggiunto risultati ulteriori nella capacità di aggredire la bioatmosfe­ra. Basta poco e gli esiti sono smisurati. Si prende di mira non il corpo dell’altro, bensì l’ambiente, dove l’esistenza diventa impossibil­e. A nulla serve la difesa immunitari­a. Ma c’è di più: la latenza degli effetti che rende invisibile l’aggression­e. È quel che avviene in questi giorni. L’attacco alle funzioni vitali, dalla respirazio­ne al sistema nervoso centrale, fa sì che apparentem­ente sia l’altro a cadere sotto il suo stesso impulso — ad esempio l’impulso naturale a respirare. La responsabi­lità si frantuma, diventa anonima. Chi sarà mai stato? Dove sarebbero le prove? In questa nuova forma di violenza bellica globale, che si è lasciata alle spalle ogni guerra tradiziona­le, vincere vuol dire annientare l’altro. E l’annientame­nto subdolo si accompagna sempre alla negazione preventiva. Dovremmo allora credere che i bambini di Ghouta si autoannien­tano respirando.

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