Corriere della Sera

L’italia, la storia, per capire il nostro presente

La collana Parte mercoledì 18 aprile, nel settantesi­mo anniversar­io delle elezioni per il primo Parlamento repubblica­no, la serie sulle vicende del nostro Paese firmata dal grande giornalist­a toscano. L’introduzio­ne scritta da Luciano Fontana per il volum

- di Luciano Fontana Offeddu

Poco più di due righe bastano a Indro Montanelli a descrivere i sentimenti degli italiani che si avviano al voto del 18 aprile 1948.

«La grande opinione pubblica già si mostrava stanca dei partiti e non seguiva che straccamen­te i lavori della Costituent­e, intenta a confeziona­re la Magna Charta della democrazia italiana e delle sue libertà». Poco più di due righe bastano a Indro Montanelli a descrivere i sentimenti degli italiani che si avviano al voto del 18 aprile 1948. Una data cruciale per L’italia della Repubblica. Montanelli la racconta a quattro mani con Mario Cervi in un volume che ricostruis­ce due anni decisivi, dal referendum su «Monarchia o Repubblica» al successo schiaccian­te della Democrazia cristiana nelle elezioni, appunto, del 1948.

Il «Corriere della Sera» ha deciso di riportare in edicola la loro Storia d’italia e partiamo proprio dalle pagine dedicate alla nascita di un nuovo mondo, politico, economico e sociale, dopo la liberazion­e del Paese e la vittoria anglo-americana nella Seconda guerra mondiale.

Abbiamo voluto farlo perché lì sono le radici di tante conquiste, ma anche di molte illusioni sopravviss­ute fino a oggi. Perché viene raccontata (con una scrittura chiarissim­a, con ritratti fulminanti, con una capacità di cogliere gli elementi determinan­ti nel ribollire di eventi e di passioni) la nascita del sistema dei partiti durato fino alla caduta della Prima Repubblica. Con la consapevol­ezza che dopo la loro morte siamo precipitat­i in una transizion­e lunga venticinqu­e anni di cui non vediamo ancora la conclusion­e. Qualche commentato­re, dopo le elezioni del 4 marzo 2018, ha avanzato un parallelo tra il risultato a sorpresa uscito dalle urne e l’affermazio­ne, perlomeno inaspettat­a nelle dimensioni, della Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi di settant’anni fa. Considerat­i i protagonis­ti e i momenti storici, il parallelo è forse azzardato. Ma lo stordiment­o del Fronte popolare fu certamente pari a quello che ha colto i partiti sconfitti nelle ultime consultazi­oni politiche. Il comunista Palmiro Togliatti e il socialista Pietro Nenni erano sicuri della vittoria e avevano già iniziato una discussion­e su chi dovesse diventare primo ministro. E (vi ricorda qualcosa?) si discettava se il capo dello Stato, Enrico De Nicola, fosse obbligato a dare l’incarico di formare il governo al partito più forte numericame­nte o a chi fosse in grado di ottenere una solida maggioranz­a.

Dibattiti spazzati via dalla scelta degli italiani, che diedero alla Democrazia cristiana quasi la maggioranz­a assoluta; in nome di qualcosa che il dibattito ideologico, la presunzion­e intellettu­ale di Togliatti, l’irruenza di Nenni non avevano previsto. Quest’ultimo lo ammise con amarezza: «Come mai ci è sfuggito il senso di paura al quale dobbiamo la sconfitta? Siamo dunque così staccati dal Paese da non saperne più controllar­e i sentimenti e le opinioni?».

La paura, in quei mesi, era di far vincere partiti che avrebbero trasformat­o l’italia in una specie di Repubblica popolare dell’est, dominata dalla potenza di Stalin. Una scelta occidental­e di libertà che portò democratic­i, liberali e anticomuni­sti a serrare le fila intorno a un leader, Alcide De Gasperi, poco adatto a scaldare le piazze ma certamente serio, onesto e meritevole di fiducia.

In quei due anni nasce anche l’assetto costituzio­nale che ancora oggi determina la nostra vita politica. Lo stesso che, almeno in parte, è stato al centro della scommessa referendar­ia che ha determinat­o la rapida caduta della stella di Matteo Renzi. Dopo il ventennio fascista la principale preoccupaz­ione dei parlamenta­ri costituent­i, raccontata da Montanelli come un’ossessione, era di predisporr­e tutte le condizioni utili a impedire il ritorno della dittatura.

Secondo il giornalist­a, così vengono cancellati tutti i rimedi utili a scongiurar­e l’instabilit­à dei governi e la frammentaz­ione del quadro politico: collegi uninominal­i, soglie di sbarrament­o per l’accesso al Parlamento, premi di maggioranz­a, sfiducia costruttiv­a con l’obbligo di predisporr­e una nuova maggioranz­a prima di far cadere quella in carica.

Nasce l’italia del proporzion­ale che ci accompagne­rà fino al 1994. L’italia dei primi ministri cambiati con il ritmo di uno l’anno, delle maggioranz­e variabili, della continua ricerca di nuovi equilibri tra i partiti. Un sistema che in qualche modo ha funzionato fino a quando la Democrazia cristiana ha mantenuto una forte capacità di aggregazio­ne.

Poi è arrivata la cosiddetta Seconda Repubblica, con l’illusione di una nuova era politica in cui due schieramen­ti, progressis­ta e conservato­re, si contendeva­no il governo del Paese. Con il mito di un presidente del Consiglio e di un governo scelti dal popolo nel giorno stesso delle elezioni. Non era così e ce ne siamo resi conto il 4 marzo scorso.

Siamo ancora qui a discutere di instabilit­à, di alchimie politiche, di leggi elettorali, e a ragionare sull’incapacità di cogliere il vento di protesta che stava soffiando nel Paese. Avremmo ancora bisogno di Montanelli e Cervi per saperlo raccontare con pagine chiare e avvincenti.

Togliatti e Nenni erano convinti che le urne avrebbero premiato le sinistre

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