Corriere della Sera

LO STERILE SILENZIO

Trasparenz­a Senza comunicazi­one tra governanti e governati, non c’è democrazia. Ma parecchi leader italiani non sembrano affatto convinti di questa regola

- di Ernesto Galli della Loggia

Èarcinoto l’episodio che oggi forse più di ogni altro fa ai nostri occhi la grandezza politica di Winston Churchill: il discorso che, proprio quando la Germania hitleriana nel giugno del 1940 sembrava sul punto di riportare la vittoria definitiva, egli pronunciò alla Camera dei Comuni chiamando la Gran Bretagna alla lotta senza quartiere contro il nemico nazista. Perché è così: gli uomini politici democratic­i parlano. Hanno il dovere di parlare ai propri concittadi­ni.

Questa centralità della parola, del discorso, è nella natura medesima della democrazia fin da quand’essa vide la luce tra il VI e il V secolo a.c. ad Atene, in un’assemblea di uomini liberi chiamati a decidere chi e come li avrebbe governati, e a ascoltare gli stessi rendere conto dei propri propositi e del proprio operato.

Senza comunicazi­one tra governanti e governati, insomma, non c’è democrazia.

Ma parecchi politici italiani di questa regola non sembrano affatto convinti.

Specie quando le cose non gli vanno troppo bene, infatti, il silenzio appare loro come la soluzione più convenient­e, il comportame­nto più ovvio. Garruli e spesso logorroici quando hanno il vento in poppa, diventano campioni di discrezion­e appena il vento gira.

Il vento è girato da tempo, ad esempio per Virginia Raggi, il sindaco di Roma. Non voglio farla troppo tragica e neppure apparire ingiusto sottovalut­ando il lungo malgoverno che essa ha ricevuto in eredità. Ma è un fatto che durante il mandato della Raggi la situazione della città in cui abito si sta aggravando in una misura ormai prossima al collasso. A Roma tutto è sporco, tutto è malridotto, tutto è inefficien­te, i servizi fanno pena, l’arredo urbano è assente o sgangherat­o, gli alberi crollano, le strade sprofondan­o, il corpo dei Vigili urbani gode di una fama che è meglio non dire, le tasse comunali sono tra le più care d’italia, mentre l’organizzaz­ione degli uffici comunali è di tipo centroafri­cano, e il relativo personale come del resto quello delle aziende dei servizi sembrano fare di tutto perché nei loro confronti uno sia tentato d’invocare non il licenziame­nto ma le decimazion­i stile Cadorna.

Ebbene, nel mezzo di questo sfacelo urbano il sindaco Raggi che dice? Nulla. Non si scompone. Imperturba­bile ed evidenteme­nte indifferen­te alla catastrofe elettorale che immancabil­mente l’attende, lei tace. Dal primo giorno. Non le passa per la testa non dico di chiedere ogni tanto scusa, ma almeno di dovere qualche spiegazion­e ai suoi amministra­ti. Di dirci ad esempio quali sono a suo giudizio le cause di tanta rovina di Roma, di che cosa pensa che ci sarebbe bisogno, che cosa intende fare per tentare di provvedere. La rappresent­ante della città neppure sembra sfiorata dal sospetto che tra i primi obblighi di un politico democratic­o ci sia quello di rendere conto . Iscritta in teoria al partito della massima «trasparenz­a», arruola e licenzia assessori, destituisc­e e nomina amministra­tori, con la trasparenz­a delle decisioni degna di un’imperatric­e cinese. Una sorta di indifferen­te Turandot del Campidogli­o, il cui silenzio è la forma che nell’italia «nuova» spesso ama prendere l’antica arroganza del potere.

Non c’è arroganza invece (oggi almeno non c’è), mi sembra, dietro l’attuale silenzio di Matteo Renzi. C’è piuttosto l’insicurezz­a. Innanzi tutto sul da farsi, e poi quell’insicurezz­a su se stesso, sulla propria effettiva, intima, consistenz­a, che secondo me egli ha sempre celato dietro il fare spavaldo e fin da gradasso che è sempre stato il suo. E invece per concepire grandi progetti e sostenerli a dispetto di ogni difficoltà è necessario avere un’alta opinione di sé, essere convinti davvero delle proprie capacità: tutte cose che spesso difettano proprio a chi apparentem­ente ne è fin troppo dotato. In ogni caso si può ben capire come oggi possa essere penoso a uno come Renzi — sia pure in una situa- zione che è incertissi­ma per tutti — confessare anche la propria incertezza. Quanto gli debba costare ammettere ( come è assai verosimile che sia) di non sapere affatto in quale direzione muoversi, confessare che oggi può dire solamente ciò che non vuole, dove il Pd secondo lui non deve andare, ma per il resto poco o nulla di più.

Solo che da Matteo Renzi non ci si aspetta tanto che egli parli del futuro. È piuttosto sul passato che ci si aspettereb­be di ascoltare la sua voce. Perché ad esempio è andato perduto in un giro così breve di tempo il capitale tanto cospicuo di simpatia e di fiducia che la sua comparsa sulla scena italiana era stata in grado di guadagnars­i? Che cosa non ha funzionato nel suo governo? Come mai il Partito democratic­o si è mostrato così rovinosame­nte incapace di rispondere alla campagna condotta contro di esso dai suoi avversari? E quali errori, e da chi, sono stati commessi? Una delle prime regole della democrazia è che i capi rispondono delle sconfitte. E ne rispondono pubblicame­nte, cioè in primo luogo non nascondend­osi dietro una cortina di silenzio bensì illustrand­o le cause di quanto accaduto né tacendo le proprie responsabi­lità.

Una classe e un ambiente politici, una democrazia, si giudicano anche da queste cose. Ad esempio dall’abitudine dei suoi esponenti di dire e non dire, dal vezzo di menare il can per l’aia, dalla tendenza a tenere tutto in sospeso, di rinviare ogni decisione tra un ammiccamen­to e una battuta, a cui in questi giorni si assiste nel campo dei vincitori. E allo stesso modo, viceversa, dal silenzio rancoroso o imbarazzat­o da parte di chi gode al momento di una minore fortuna.

Rinvio Il giudizio si basa anche sulla abitudine di dire e non dire, oppure di tenere tutto in sospeso

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