Corriere della Sera

UNA CULTURA DELLA COALIZIONE L’EREDITÀ DI ROBERTO RUFFILLI

UCCISO TRENT’ANNI FA DALLE BRIGATE ROSSE

- di Gianfranco Pasquino

Sono passati trent’anni da quel sabato pomeriggio 16 aprile del 1988 quando un commando delle Brigate Rosse assassinò il senatore democristi­ano Roberto Ruffilli nella sua abitazione di Forlì. La motivazion­e, nient’affatto delirante, ma certo frutto di una malsana ossessione, era che attraverso la sua attività di studioso e di riformator­e delle istituzion­i, Ruffilli cercava di rendere più forte e, quindi, più repressivo lo Stato. In effetti, Ruffilli stava elaborando riforme condivisib­ili in grado di migliorare il funzioname­nto dello Stato italiano, dargli più autorevole­zza, produrre governi più efficienti grazie ad una legge elettorale che offrisse buona rappresent­anza ai cittadini elettori. Oggi, sicurament­e, Ruffilli non tratterreb­be il sorriso di fronte a chi volesse valutare le proposte da lui avanzate quale capogruppo della delegazion­e Dc in Commission­e Bozzi (novembre 1983-1 febbraio 1985), come se non fossero passati trent’anni di stravolgim­enti, interventi deformanti, collasso dei partiti, declino della qualità della classe politica. Di quella Commission­e — mi limiterò ai nomi di alcuni democristi­ani che vi avevano attribuito grande importanza — fecero parte Nino Andreatta, Pietro Scoppola, Mario Segni.

Ciò detto, non posso resistere a quello che non è un puro gioco di immaginazi­one, ma è una riflession­e fondata sulla

mia conoscenza di Roberto Ruffilli come studioso e come persona, vale a dire chiedermi se Ruffilli aveva colto l’essenza del problema e se le soluzioni da lui allora prospettat­e avrebbero senso anche oggi. Subito, Ruffilli mi farebbe notare che, studiando e continuand­o a imparare, era disponibil­e a cambiare, se necessario, idee e proposte. Dunque, chi volesse conoscere le sue valutazion­i su quanto in seguito è stato fatto, non fatto, malfatto, dovrebbe piuttosto seguire i suoi principi ispiratori.

Senatore eletto come indipenden­te dalla Dc il cui segretario era Ciriaco De Mita, il compito di Ruffilli fu di elaborare riforme nella democrazia parlamenta­re tali da rafforzare il circuito cittadini-parlamento-governo. Alla fine dei lavori la Commission­e votò un ordine del giorno, firmato anche dai capigruppo del Pci e del Psi, che suggeriva come sistema elettorale la rappresent­anza proporzion­ale personaliz­zata utilizzata allora e tuttora in Germania. Ruffilli attribuiva grande importanza alla formazione di una cultura della coalizione. Gli espressi il mio, parziale, ma fermo, dissenso.

L’italia di quegli anni aveva, secondo me, bisogno di una cultura della competizio­ne, premessa di qualsiasi democrazia bipolare, maggiorita­ria, capace di alternanza. Nei lunghi anni trascorsi ho capito meglio quello che Ruffilli voleva dire e quello che è necessario fare. Cultura della coalizione significa costruire uno schieramen­to maggiorita­rio intorno a priorità programma-

Il suo compito Lavorò per rafforzare il circuito cittadinip­arlamento-governo

Il delitto Fu eliminato per le sue idee: rendere lo Stato più forte

tiche con patti chiari da rispettare e da attuare consentend­o senza riserve che lo schieramen­to/partito che ha ottenuto più voti/seggi esprima il capo della coalizione. La leadership deve sempre rimanere contendibi­le, ma, per citare Aldo Moro di cui Ruffilli fu grande e convinto estimatore: «chi ha più filo tesserà più tela».

Troppo facile concludere che si troverebbe a disagio con il clima, la congiuntur­a, la mancanza di stile della politica italiana di oggi. Avrebbe, comunque, continuato a studiare, scrivere, partecipar­e a incontri (numerosi quelli che abbiamo fatto insieme in mezza Italia di fronte a «pubblici» prevalente­mente cattolici-democratic­i) a, per usare un’espression­e alla quale ricorreva scherzosam­ente, «spezzare il pane della scienza». Caro Roberto, il pan ci manca.

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