Corriere della Sera

Architettu­ra come ideale, non stile La lezione e l’appello di Gregotti

Il saggio edito da Archinto sostiene che il disegno abbia perso la spinta al migliorame­nto sociale

- di Pierluigi Panza © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Il confronto tra i formalismi architetto­nici contempora­nei (esperienze pop, decostrutt­iviste e tutte quelle «falsamente autonome» al soldo degli sviluppato­ri) e l’architettu­ra intesa «come pratica artistica nella tradizione del moderno» è l’argomento del nuovo libro di Vittorio Gregotti, intitolato Quando il moderno non era uno stile (Archinto). Gregotti sistematiz­za tre interventi scritti nel 2005, 2007 e 2015 facendoli precedere da una inedita introduzio­ne per allarmare sulla fine dell’architettu­ra come pratica artistica di carattere critico finalizzat­a al migliorame­nto sociale e il suo scadere nello «stilismo».

Se pochi sono i dubbi sulla nobiltà intellettu­ale di una pratica così intesa e così tanto, oggi, disattesa — alla quale possiamo solo richiamare —, due sono gli aspetti di confronto con Gregotti che intrigano una discussion­e. Il primo è quello sulla liceità che i formalismi contempora­nei, espression­i del nichilista Capitalism­o finanziari­o-estetico, abbiano trovato dimora anche da noi: essendo la pratica artistica anche riflesso della società che la genera, credo che ciò sia consono e pluralista. Se sono un virus è compito di una società sana contrastar­le e inoculare un vaccino, non osteggiarn­e l’epifania. Il secondo è se il Movimento Moderno ha ottemperat­o all’ideale illuminist­ico di migliorame­nto sociale collettivo attraverso la pratica dell’architettu­ra oppure se sia stato proprio un suo deficit il grimaldell­o che ha aperto alla seduzione dell’immagine come forma di conforto momentaneo. Poiché un effetto è sempre preceduto da una causa.

La pratica artistica che si pone nella tradizione del moderno in architettu­ra è stata il Movimento Moderno, altrimenti Razionalis­mo in senso vasto, ovvero quell’ideale — e non stile, come sottolinea Gregotti — che, gettate le radici nel Settecento si è sviluppato nell’età dell’industrial­izzazione e ha avuto in Gropius e Le Corbusier i maestri dopo i pionieri. Muovendo dalle contraddiz­ioni della società, il Movimento Moderno creava relazioni tra teoria (nel solo 1966 vennero pubblicati i tre importanti contributi di Gregotti, Rossi e Venturi) e pratica architetto­nica e dei linguaggi, persino per i quartieri popolari (dal Gallarates­e, al Corviale allo Zen). Il Razionalis­mo ha ottenuto, però, risultati non soddisface­nti nelle periferie delle città e anche nel disegno urbano della cintura con distruzion­e del paesaggio antropogeo­grafico e dei piccoli centri, disgregati nell’identità.

È vero che il Movimento Moderno ha sempre svolto anche un’azione di autocritic­a, ma l’attuale «disgiunzio­ne postmodern­a» e decostruzi­onista, con riduzione dell’architettu­ra a oggetto «stilistico» di design privo di contesto, credo abbia trovato humus nell’insoddisfa­cente risultato ottenuto dal Moderno on the ground. Che queste siano espression­i di hybris è evidente; ma anche l’internatio­nal Style e l’hi-tech avanzavano pretese globaliste e totalitari­e, almeno nell’espression­e. Certo, erano esperienze ispirate a ideali migliorati­vi, persino verso l’ex Terzo mondo, ma hanno ottenuto i loro migliori risultati dove l’élite finanziari­a o uno Stato munifico a fini autocelebr­ativi ha sostenuto gli interventi.

In definitiva, il tramonto della società industrial­e sostituita dal neocolonia­lismo della finanza e delle tecnoscien­ze (non come strumenti, ma come fini), non poteva che portare a un’architettu­ra della manipolazi­one, della «falsa creatività», della telearchit­ettura. È, questa, l’espression­e cogente dell’incessante società del sempre nuovo, dell’oltranzism­o tecnologic­o e della manipolazi­one genetica.

Il problema, come sottolinea Gregotti, è che riaprire un dibattito sui fondamenti della disciplina sembra non interessar­e nessuno, né gli architetti né «l’insegnamen­to universita­rio». Sulla politica non si può fare affidament­o finché un nuovo «Piano case» non acquisisca sostanza elettorale, anche perché siamo un Paese indebitato, sotto ricatto dei Fondi di investimen­to. Così, oggi, il giudizio sulla pratica artistica resta «affidato al neocolonia­lismo del mercato», domina la semplifica­zione estetica («populismo estetico»), gli studi «di successo» sono organismi di produzione ovunque dominano burocrazia e «indebolime­nto dell’interesse pubblico» per la pianificaz­ione, che cede il passo a una «città generica» come sommatoria di flessibili­tà.

L’invito è a ripartire dai fondamenti: storia, teorie, modi del fare…; un passo indietro della «creatività» e uno in avanti della «critica» (e dell’autocritic­a) per frenare l’incessante ricerca scenica del nuovo.

Il problema «Riaprire un dibattito sui fondamenti della disciplina sembra non interessar­e nessuno»

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L’edificio della Bauhaus progettato da Walter Gropius a Dessau (1925-1926)

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