L’intesa con Mario Cervi Sinfonia di estro e ordine
Caratteri molto diversi ma capaci di integrarsi Si erano conosciuti nel 1946 in via Solferino
«Se qui ora ci fosse Indro…». Una sera del 1992, a Mosca, uno dei primi ristorantini privati gestiti da una famiglia e non dallo Stato. Niente attese davanti a camerieri imbalsamati, una padrona che sorride. «Incredibile, questa è la storia che cammina — ripeteva Mario Cervi — se qui ora ci fosse Indro...». Aveva con sé Dina, compagna di una vita, li accompagnavano l’allora corrispondente del «Giornale» e la moglie. Cervi aveva 70 anni, ma non aveva perso la curiosità dell’inviato. E in quel ristorantino, parlava di «Indro».
A quell’epoca lui e Montanelli avevano già scritto insieme diversi degli 11 libri a doppia firma (più due riassuntivi) pubblicati per la Storia d’italia. Erano divenuti anche storici perché contagiati dalla passione più inguaribile del giornalismo, la curiosità per gli eventi e per gli uomini; con un modello proposto da Dino Buzzati e tradotto da Montanelli in un nuovo stile: parlare con semplicità a ogni lettore, spogliare i personaggi dalla retorica e mostrarli anche nelle debolezze. Montanelli aveva 12 anni più di Cervi. Li accomunava un passato da ufficiali. Montanelli, finito a San Vittore, era scampato a una condanna a morte già decisa dai nazisti, Cervi era stato preso prigioniero in terra ellenica, dopo l’8 settembre. Si incontrarono al «Corriere», nel 1946. Cervi era un cronista appena assunto. Montanelli aveva già conosciuto la fama dell’inviato. Ma anche l’«esilio interno», dopo essersi ritrovato nel fronte comune con colleghi e amici azionisti, ed esserne però stato diviso da vecchie e nuove diffidenze.
La divisione fu così profonda che il direttore azionista Mario Borsa relegò Montanelli a occuparsi di cinema per la «Domenica del Corriere»: «Trattamento dovuto al mio civilissimo ma inequivocabile divorzio dai vecchi amici del Partito d’azione», avrebbe ribadito Montanelli. Amici che «da liberali di sinistra, eredi di Piero Gobetti, s’erano trasformati in massimalisti e non mi perdonavano le mie simpatie monarchiche».
Poi l’«esilio» finì. Al referendum del 1946 Cervi votò per la repubblica. Montanelli per la monarchia. Entrambi, Mario e Indro, attraversarono il periodo più burrascoso della storia italiana da soldati, giornalisti, osservatori e anche già storici in nuce.
Caratteri diversi, e molto. Il primo, Indro, era un toscano o «toscanaccio» benedetto e tormentato dal proprio genio. Il secondo era un lombardo meno dotato di scatti e scintille,
Il programma Scrivere con semplicità, spogliare i personaggi famosi dalla retorica, mostrarne le debolezze
buon giornalista capace di lavorare in équipe: lo fece, infatti, dal 1979, e proprio con il collega fra tutti più allergico al lavoro di équipe, quell’indro che nel 1974 lo aveva chiamato al «Giornale».
L’inizio lo racconta Montanelli nella prefazione all’italia littoria, il primo volume pubblicato insieme: «Completamente assorbito dal giornale che ho fondato e dirigo, temevo di non poter più riprendere questa storia, rimasta all’italia in camicia nera… Se sono riuscito a farlo, è perché ho trovato in Mario Cervi un collaboratore ideale. Ecco il caso di un libro a quattro mani, di cui sfidiamo qualunque lettore a riconoscere cosa è d’un autore e cosa dell’altro: tanto esso è nato da un continuo colloquio e compenetrazione fra i due».
Oltre al successo editoriale, nacque un’amicizia. Vari ritratti li dipingono quasi ogni sera seduti vicini davanti a una tv, a seguire le indagini dell’ispettore Derrick. I loro stili e ritmi si completavano a vicenda. Montanelli, dal 1965
L’affiatamento La collaborazione tra i due resse e durò come un arazzo a più colori ben intrecciato
al 1970, aveva lavorato alla Storia d’italia con Roberto Gervaso: poi la collaborazione si era interrotta. Con Cervi, invece, resse e durò come un arazzo a più colori ben intrecciato: le introduzioni e le postfazioni scritte da Indro, con la visione d’insieme, le zampate dei ricordi personali e certi ritratti graffianti; poi il testo d’insieme più pacato, ordinato dalla penna tranquilla di Cervi che curava anche le ricerche d’archivio.
Il resto è cronaca. Nel 1994, in rotta con Berlusconi, Montanelli lascia «il Giornale» e fonda «la Voce». In tanti lo seguono, compreso Cervi, che però tornerà al «Giornale» e dal 1997 ne diverrà direttore.
In quello stesso 1997, nel poscritto a L’italia dell’ulivo, Montanelli offre a Cervi di proseguire da solo, e ricorda come la storia fin lì raccontata si «confonde con la testimonianza diretta, anche questa pienamente condivisa da Cervi». L’altro, però, non se la sente. Nel 2001, muore Montanelli, nel 2015 Cervi. E forse Mario, fino all’ultimo, avrà pensato come quella sera a Mosca: «Se qui ora ci fosse Indro…». Per chi ci creda, i due si saranno reincontrati da qualche parte. Il toscanaccio a scompigliar le nuvole, il pacato Mario a ricomporle. L’esito Nella foto grande in alto: il ministro dell’interno socialista Giuseppe Romita (18871958, con i fogli in mano) legge i risultati, favorevoli alla repubblica, del referendum istituzionale celebrato il 2 giugno del 1946