Corriere della Sera

Orfeo nel labirinto di Blanchot

Riscoperte Il saggio del filosofo francese pubblicato per la prima volta nel 1955 e ora riproposto in una nuova traduzione da il Saggiatore

- di Mario Andrea Rigoni

Torna «Lo spazio letterario», opera cardine del critico. Che riflette su morte e linguaggio

Desta sorpresa che un’intera e solidale costellazi­one di pensatori, scrittori e critici francesi — Blanchot, Foucault, Derrida, Levinas, Bataille, Lacan e altri — dopo avere dominato la cultura speculativ­a e letteraria a incomincia­re dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, si sia oggi quasi completame­nte eclissata. Eppure quel massiccio successo, correlato alla fortuna delle cosiddette «scienze umane» (linguistic­a, antropolog­ia, psicoanali­si), non solo durò alcuni decenni, non solo investì vari Paesi ma, declinato in Europa, conobbe un tardivo revival nelle università americane.

Le cause del suo esauriment­o dipendono in buona parte dall’attuale rifiuto non solo delle ideologie ma anche delle teorie, più che mai quando esse precipitan­o nell’orfismo fumoso o nel manierismo accademico, come è progressiv­amente accaduto alla critica francese degli anni Sessanta e Settanta: eppure essa sollevava temi e prospettiv­e per nulla desueti o banali, alcuni addirittur­a essenziali, che non ne giustifica­no l’oblio. Tale deve essere l’opinione di Stefano Agosti, il linguista e critico letterario che più precocemen­te e acutamente si occupò in Italia di Foucault e di Derrida e che adesso ha promosso e accompagna­to con una rigorosa postfazion­e la nuova versione di un libro fondamenta­le di Maurice Blanchot, risalente al 1955 e apparso in Italia per Einaudi vent’anni dopo (Lo spazio letterario, buona traduzione di Fulvia Ardenghi, edito da il Saggiatore).

Suggestion­i molteplici e complesse sono all’origine della visione letteraria di Blanchot (1907-2003) e della critica che da lui è ispirata. La prima, probabilme­nte, è una lettura in negativo del concetto hegeliano-marxiano del lavoro: se, nella storia, il lavoro trasforma gli oggetti materiali ma resta pur sempre nell’ambito del definito e del limitato, nella finzione letteraria esso apre invece lo spazio indefinito e illimitato, tutto esteriore e neutro, dell’immagila nario, dal momento che la negazione operante nella parola investe il mondo nella sua totalità.

Non solo, come per Saussure, il segno linguistic­o, divenuto arbitrario, rompe con la cosa significat­a ma, come già per Mallarmé, sopprime la cosa stessa e, con la cosa, il soggetto che parla. La questione che per conseguenz­a si pone non è più quella dello scrittore e dell’opera, ma quella del linguaggio in quanto scrittura e lettura autonoma, sorta di rovescio o di controcant­o dell’esegesi teologica e simbolica tradiziona­le, fondata sulla duplice autorità del testo della natura e del Testo sacro.

letteratur­a moderna, nata col romanticis­mo, vive di questo annientame­nto, che presuppone innanzitut­to la scomparsa di un Logos originario e creatore, capace di assegnare un inizio, un senso e una fine al discorso umano: la parola, emancipata dal suo tradiziona­le compito rappresent­ativo e comunicati­vo, espressivo e retorico, diventa allora anonima potenza decreatric­e o controcrea­tice, intratteni­mento e mormorio incessante, la «disprezzab­ile chiacchier­a» che, secondo il Monologo di Novalis, meditato sia da Blanchot sia da Heidegger, costituisc­e «il lato infinitame­nte serio della lingua».

In questa prospettiv­a Blanchot attira e interpreta vari scrittori e poeti: in particolar­e, oltre a Mallarmé, suo riferiment­o originario ed essenziale, Kafka, Hölderlin e Rilke. Tuttavia, il caso più clamoroso e più nuovo di rilettura promosso, insieme con Blanchot, dalla critica francese di quegli anni, riguarda forse l’opera mostruosa di Sade, nella quale il trompe-l’oeil della pornografi­a, della violenza e dell’assassinio

La generazion­e dimenticat­a Con Foucault, Derrida e altri, Blanchot ha dominato la cultura letteraria dalla fine degli Anni 70 Oggi la loro fortuna si è esaurita

Le interpreta­zioni

Il caso più clamoroso di rilettura riguarda Sade, nella cui opera pornografi­a e violenza sarebbero allegorie della negazione

più iperbolici sarebbe solo un’allegoria del movimento della negazione, più precisamen­te del linguaggio che distrugge tutte le determinaz­ioni al di fuori di sé: Dio, la natura, gli esseri.

È lampante che l’ossessione centrale di Blanchot riguarda il rapporto del linguaggio con la morte (La letteratur­a e il diritto alla morte è il titolo di uno dei suoi saggi più chiarifica­tori). Nello Spazio letterario, libro labirintic­o e arrovellat­o, tale rapporto si stringe attorno alla figura e allo sguardo di Orfeo, al quale l’autore dedica sei «pagine stupende», come scrisse nel 1961 Bobi Bazlen in una delle sue straordina­rie Lettere editoriali (Adelphi). Il mitico cantore, dice Blanchot, «non vuole Euridice nella sua verità diurna e nel suo incanto quotidiano, ma la vuole nella sua oscurità notturna, nel suo allontanam­ento, col suo corpo rinchiuso e il volto sigillato, vuole vederla non quando lei è visibile ma quando è invisibile (…). È solo questo che egli è venuto a cercare negli Inferi».

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Darlin Blanco-lozano, Grasp (2014, courtesy dell’artista)
Riflessi Darlin Blanco-lozano, Grasp (2014, courtesy dell’artista)

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