Non solo catalani: viaggio tra i separatisti d’europa
Non sono solo Catalogna e Scozia a inseguire il sogno di una patria su misura. In Europa sono decine i partiti e i movimenti irredentisti. È pensando a loro che il presidente della Commissione europea, Jeanclaude Juncker, ha detto di non volere un’europa divisa in 95 Staterelli. Come potrebbe un’europa così frammentata tenere testa ai colossi Usa, Cina, Russia, Brasile, India? A Juncker possono anche non piacere, eppure sono lì, pronti a cavalcare l’onda giusta della storia.
I principali focolai indipendentisti
Una patria su misura
Dal crollo dell’urss, il numero degli Stati aderenti al progetto europeo è passato da 12 a 28, e altri 7 sono in lista d’attesa. Da una parte ci si divide, dall’altra ci si unisce, sembrano fenomeni opposti, ma non lo sono: la frammentazione dei vecchi si è nutrita grazie alla possibilità di lasciare l’ombrello sovietico rotto per quello dell’ue allora molto fashion. In questi anni l’unione di Bruxelles ha garantito mercati, stabilità finanziaria e, indirettamente, difesa militare, ma in cambio non ha chiesto ai cittadini di sentirsi europei, parlare da europei, pagare le tasse da europei.
Però Stato e nazione non sempre coincidono nella testa delle persone, e disegnare una patria su misura è molto difficile. Un esempio. Se la Catalogna dovesse ottenere l’indipendenza dalla Spagna, dovrebbe affrontare il secessionismo della Tabarnia, uno spazio geografico tra Tarragona e Barcellona dove i voti «spagnolisti» sono maggioranza. Ci potrebbero poi essere dei quartieri di Tabarnia che, riconoscendosi un’identità catalana, vorrebbero scindersi dagli spagnolisti che li circondano. E via spezzettando.
Lo spezzatino
I nazionalismi indipendentistici più strutturati sono in Spagna (catalani e baschi), Belgio (fiamminghi e valloni), Gran Bretagna (scozzesi e irlandesi), Francia (corsi e bretoni), Germania (bavaresi), Italia (Lombardia, Veneto e tirolesi). Dentro questi grandi Stati ci sono però altre comunità che non si sentono comode. Sono i valenziani, i galleghi, gli andalusi e i canari in Spagna. I gallesi, gli abitanti delle Isole di Mann e della Cornovaglia in Gran Bretagna. I savoiani, i baschi del Nord e i catalani del Nord in Francia. I siciliani, i sardi, i sudisti, i friulani, gli sloveni e i valdostani in Italia. Perfino le Isole Shetland vorrebbero lasciare Londra per Oslo.
Minoranze insoddisfatte sono i bulgari della Moldavia, gli ungheresi della Romania e della Slovacchia, i 30 mila «svedesi»
Due filoni
I motivi storici hanno poca presa se non c’è anche un vantaggio economico
dell’arcipelago delle Åland, che però appartengono alla Finlandia, e gli abitanti delle Shetland che dopo mezzo millennio vorrebbero tornare ad avere passaporto norvegese invece che scozzese. La Slesia è un progetto di Stato che vorrebbe nascere dalla Repubblica Ceca. Più pragmatico l’irredentismo di Groenlandia e Isole Faroe. Per loro Copenhagen è una capitale troppo lontana.
Cultura e portafogli
Da dove nasce questa irresistibile
Secessionismi
I più radicati sono in Spagna, Belgio, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia
voglia di piccole patrie? Due i filoni. Il primo è etnicostorico-linguistico-culturale. Il secondo economico. Ma senza un vantaggio per il portafogli, le ragioni culturali hanno in genere poca presa. La ricca Savoia chiama Parigi «ladrona», e persino la Scozia ha riscoperto il fascino dei kilt quando il petrolio del Mar del Nord ha cominciato a fluire.
Nella categoria «storico-culturale» rientra appieno la Celtic League che difende ciò che resta di quella lingua vecchia di tre millenni in Irlanda, Scozia,