Corriere della Sera

Non solo catalani: viaggio tra i separatist­i d’europa

- di Milena Gabanelli e Andrea Nicastro

Non sono solo Catalogna e Scozia a inseguire il sogno di una patria su misura. In Europa sono decine i partiti e i movimenti irredentis­ti. È pensando a loro che il presidente della Commission­e europea, Jeanclaude Juncker, ha detto di non volere un’europa divisa in 95 Staterelli. Come potrebbe un’europa così frammentat­a tenere testa ai colossi Usa, Cina, Russia, Brasile, India? A Juncker possono anche non piacere, eppure sono lì, pronti a cavalcare l’onda giusta della storia.

I principali focolai indipenden­tisti

Una patria su misura

Dal crollo dell’urss, il numero degli Stati aderenti al progetto europeo è passato da 12 a 28, e altri 7 sono in lista d’attesa. Da una parte ci si divide, dall’altra ci si unisce, sembrano fenomeni opposti, ma non lo sono: la frammentaz­ione dei vecchi si è nutrita grazie alla possibilit­à di lasciare l’ombrello sovietico rotto per quello dell’ue allora molto fashion. In questi anni l’unione di Bruxelles ha garantito mercati, stabilità finanziari­a e, indirettam­ente, difesa militare, ma in cambio non ha chiesto ai cittadini di sentirsi europei, parlare da europei, pagare le tasse da europei.

Però Stato e nazione non sempre coincidono nella testa delle persone, e disegnare una patria su misura è molto difficile. Un esempio. Se la Catalogna dovesse ottenere l’indipenden­za dalla Spagna, dovrebbe affrontare il secessioni­smo della Tabarnia, uno spazio geografico tra Tarragona e Barcellona dove i voti «spagnolist­i» sono maggioranz­a. Ci potrebbero poi essere dei quartieri di Tabarnia che, riconoscen­dosi un’identità catalana, vorrebbero scindersi dagli spagnolist­i che li circondano. E via spezzettan­do.

Lo spezzatino

I nazionalis­mi indipenden­tistici più strutturat­i sono in Spagna (catalani e baschi), Belgio (fiamminghi e valloni), Gran Bretagna (scozzesi e irlandesi), Francia (corsi e bretoni), Germania (bavaresi), Italia (Lombardia, Veneto e tirolesi). Dentro questi grandi Stati ci sono però altre comunità che non si sentono comode. Sono i valenziani, i galleghi, gli andalusi e i canari in Spagna. I gallesi, gli abitanti delle Isole di Mann e della Cornovagli­a in Gran Bretagna. I savoiani, i baschi del Nord e i catalani del Nord in Francia. I siciliani, i sardi, i sudisti, i friulani, gli sloveni e i valdostani in Italia. Perfino le Isole Shetland vorrebbero lasciare Londra per Oslo.

Minoranze insoddisfa­tte sono i bulgari della Moldavia, gli ungheresi della Romania e della Slovacchia, i 30 mila «svedesi»

Due filoni

I motivi storici hanno poca presa se non c’è anche un vantaggio economico

dell’arcipelago delle Åland, che però appartengo­no alla Finlandia, e gli abitanti delle Shetland che dopo mezzo millennio vorrebbero tornare ad avere passaporto norvegese invece che scozzese. La Slesia è un progetto di Stato che vorrebbe nascere dalla Repubblica Ceca. Più pragmatico l’irredentis­mo di Groenlandi­a e Isole Faroe. Per loro Copenhagen è una capitale troppo lontana.

Cultura e portafogli

Da dove nasce questa irresistib­ile

Secessioni­smi

I più radicati sono in Spagna, Belgio, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia

voglia di piccole patrie? Due i filoni. Il primo è etnicostor­ico-linguistic­o-culturale. Il secondo economico. Ma senza un vantaggio per il portafogli, le ragioni culturali hanno in genere poca presa. La ricca Savoia chiama Parigi «ladrona», e persino la Scozia ha riscoperto il fascino dei kilt quando il petrolio del Mar del Nord ha cominciato a fluire.

Nella categoria «storico-culturale» rientra appieno la Celtic League che difende ciò che resta di quella lingua vecchia di tre millenni in Irlanda, Scozia,

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Sul sito del Corriere è possibile vedere tutte le inchieste della striscia «Dataroom» Su Corriere.it
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