Corriere della Sera

MAURIZIO CATTELAN

- (Foto Ferrari)

buona azione coi soldi ricevuti in cambio. Solo dopo ho realizzato che, in fondo, è un cerchio che si chiude con il lavoro presentato in Biennale nel ’93, quando vendetti lo spazio di un billboard a un marchio di profumi. Oggi il billboard sono io. La dimostrazi­one vivente che l’arte può essere stupida, ma anche utile».

Cosa significa provocare?

«Si dice che i libri che il mondo chiama immorali siano i libri che mostrano al mondo la sua vergogna. La provocazio­ne funziona esattament­e allo stesso modo: non è altro che un cavallo di Troia per mettere sulla bocca di tutti argomenti che si vogliono tacere. La cosa interessan­te è che quello che troviamo provocator­io è totalmente soggettivo, un po’ come quando racconti una barzellett­a divertenti­ssima ma nessuno ride. Non puoi prevedere se gli altri la troveranno divertente, puoi solo decidere di correre il rischio di esporti».

Da bambino avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato l’uomo che è diventato?

«Da bambino desideravo con tutte le mie forze liberarmi dell’autorità dei miei genitori. Sono scappato di casa e andato a lavorare per poter vivere da solo. A quel punto il desiderio era diventato far fuori i miei datori di lavoro, e ho cominciato a fare l’artista. Quando sono andato in pensione, è perché stava nascendo lo stesso desiderio verso i galleristi: fare l’artista era diventato un mestiere come gli altri, aveva perso il sapore anarchico e proibito che lo rendeva gustoso e desiderabi­le. Quel desiderio è l’unico motore che abbia mai avuto».

Ci sono dei bivi che se non avesse preso avrebbero cambiato, forse, la sua carriera?

«È stato ricorrente nella mia vita: il cambiament­o equivale a una fuga in avanti, un po’ come nel ciclismo. Prima di approdare a Milano ho fatto cinque anni di limbo. Quello che mi ha portato a Milano è la determinaz­ione, il volere una vita diversa da quella che avevo vissuto fino a quel momento. Mi ero ripromesso che non avrei mai più lavorato alle dipendenze di qualcuno, e Milano è stato dove per la prima volta ho capito come potevo riuscirci. Era una città aperta al nuovo, e tutti erano pronti a incoraggia­re i giovani artisti. Non mi guardo indietro di solito, ma le poche volte che l’ho fatto mi sono detto che se fossi rimasto dov’ero probabilme­nte a quest’ora sarei in galera: avrei applicato la creatività alle rapine».

Oggi è l’artista italiano più quotato...

«Ma se non ci fossero i giornalist­i a ripetermel­o, sono sicuro che me lo sarei dimenticat­o. È come se fossi famoso per essere andato a letto con una star di Hollywood vent’anni fa: mi stupisco che faccia ancora notizia». La provocazio­ne Il cambiament­o

È stato ricorrente nella mia vita: equivale a una fuga in avanti, come nel ciclismo. Se fossi rimasto dov’ero a quest’ora sarei in galera: avrei applicato la creatività alle rapine

Le sue case sono vuote, legge moltissimo ma regala tutti i libri e anche su Instagram pubblica un solo post al giorno che poi cancella. Non è curioso specie per chi, fondamenta­lmente, produce oggetti?

«Gli oggetti sono ricordi che hanno preso una forma nella realtà. Sono lì a farti presente in ogni momento che il tempo scorre inesorabil­e e che esiste un passato in cui quegli oggetti hanno significat­o qualcosa. Vivere senza la pesantezza di questo bagaglio di cose e di pensieri mi permette di guardare in avanti con leggerezza e lucidità. E poi mi piace l’idea di essere sempre pronto a trasferirm­i dall’altra parte del mondo, senza guardarmi indietro».

Ma c’è qualche opera d’arte che vorrebbe in casa sua?

«Più che le opere avrei voluto conoscere gli artisti: passare un pomeriggio al Jamaica (uno storico locale di Milano, ritrovo degli artisti, ndr.), chiacchier­are con Piero Manzoni davanti a uno spritz, vedere arrivare Mondino a cavallo di un cammello... avrei voluto conoscere il lato non artistico di molti di loro, per guardare alle opere sotto una luce meno storica e più vitale».

La luce che illumina tutte le sue opere è l’ironia. Cosa rappresent­a per lei?

«Uno strumento per mettere in evidenza le contraddiz­ioni del mondo in cui viviamo: penso che l’ironia sia la quintessen­za della reazione umana alla paura della morte, quindi la sua natura è decisament­e tragica».

A un certo punto della sua carriera, l’arte la stava «soffocando», tanto da non riuscire più a dormire la notte.

«Aveva perso l’aspetto anarchico, quella natura imprevedib­ile di cui mi nutrivo quando ho iniziato a fare l’artista. Mi sentivo costretto in una morsa di risposte da dare e decisioni da prendere su questioni che non mi sembravano rilevanti. E perdere tempo a fare qualcosa che non ci dà soddisfazi­one è un lusso che nessuno dovrebbe concedersi».

È un cavallo di Troia per mettere sulla bocca di tutti argomenti che si vogliono tacere Il bello è che quello che troviamo provocator­io è del tutto soggettivo

Per citare un suo lavoro, lavorare è un brutto mestiere?

«Sì, finché fai un mestiere che non ti piace, o un lavoro che nessun altro vuole fare».

Prima di diventare un artista, è stato un infermiere...

«Per fare quel lavoro devi avere la vocazione, come per fare il prete: il tuo contributo non è solo in quello che fai, ma in quello che dai come apporto umano. È una sfida continua con te stesso, perché devi mettere da parte i tuoi problemi, e al tempo stesso non farti influenzar­e la giornata da quelli degli altri. Dopo un po’ mi avevano spostato in terapia intensiva. Lì L’idea ● L’accademia di Belle Arti di Carrara conferisce oggi il titolo di Professore onorario a Maurizio Cattelan, che si presenterà con la fronte affittata a uno sponsor: Huawei

● Con il ricavato di questa nuova e inedita provocazio­ne, Cattelan donerà venti borse di studio agli studenti meritevoli. Nello stesso giorno, l’artista inaugurerà Eternity, la grande installazi­oneperform­ance sul tema della morte, ambientata nei giardini dell’accademia (sopra la sua lapide) ovviamente nessuno parla, non c’è uno scambio emotivo, è pieno di strumenti che fanno migliaia di rumori elettronic­i, è come vivere nel regno delle macchine. Poi, dal mondo dei vivi che stanno morendo, ero stato trasferito al piano di sotto, ai morti. In entrambi i casi, ho imparato che se lavori con i vivi non puoi indulgere a malumori: è probabilme­nte per questo che per me la vita è molto più seria della morte».

Dice di essere interessat­o al dibattito che le sue opere suscitano nel pubblico. Perché? È importante essere «capito»?

«Il contesto di un’opera fa parte del suo significat­o, così come lo è il punto di vista dello spettatore. L’arte è un territorio che tutti sono in grado di esplorare, perché non è coinvolto nessun alfabeto, ma allo stesso tempo nessuno avrà le stesse sensazioni o esperienze del suo compagno di viaggio. È il regno dell’interpreta­zione soggettiva. Quando penso a un’opera non penso alla reazione del pubblico. Come un genitore con un figlio, evito di proiettare le mie aspettativ­e sull’opera: ogni artista deve accettare che una volta cresciuta e diventata indipenden­te non si può controllar­e se l’opera frequenter­à le giuste compagnie. Qualcuno una volta ha detto che le nostre teste sono tonde in modo che i nostri pensieri possano volare in qualsiasi direzione: non esiste un modo specifico di interpreta­re un’opera, la sua forma è rotonda come le nostre teste. Le persone possono trovare un percorso personale, ogni modo è percorribi­le».

Spesso, dell’arte contempora­nea c’è chi dice: questo lo saprei fare anche io...

«Credo che il dovere dell’arte sia di fare domande, non fornire risposte. Se davanti a un’opera vuoi una risposta chiara e univoca, sei nel posto sbagliato. Se sei capace di creare domande attraverso un’opera, puoi considerar­ti un artista: è un compito rischioso, puoi scoprire cose su di te e sugli altri che avresti preferito non sapere. Se fosse facile le opere potrebbero essere progettate da macchine».

Come si descrivere­bbe?

«In un modo così terribile che non si può dire ad alta voce. Se fossi capace di manie di grandezza mi definirei il più grande statista dopo Giulio Cesare. Ma purtroppo o per fortuna l’autostima non è il mio forte».

Cosa le piace nelle persone?

«La franchezza».

Quali sono le sue paure più grandi?

«Tornare da dove sono venuto. Mai guardare indietro a meno che tu non voglia andare in quella direzione. Io mi guardo bene dal farlo».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? 2016 Cattelan con una copia del David a Carrara
2016 Cattelan con una copia del David a Carrara

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy