E per una settimana svanì la divisione città-campagna
Durante i sette giorni di apertura la Design Week tra le tante virtù sembra possedere anche quella di riuscire a circoscrivere quella che i sociologi chiamano «la contrapposizione città-campagna» e che prosaicamente potremmo definire come il sentimento di avversione dei local verso i global. Una linea di demarcazione che non riguarda solo l’italia ma ha cominciato a produrre effetti rilevanti con la Brexit e i cittadini delle aree interne schierati per il Leave, anche (forse soprattutto) in virtù di una sorta di odio sociale nei riguardi dei londinesi «ricchi e belli». Lo stesso trend lo abbiamo potuto rintracciare nell’esito del voto americano con Donald Trump capace di fare il pieno di consensi nell’america profonda contro i liberal asserragliati nelle metropoli. Anche i risultati italiani del 4 marzo ci hanno mostrato questa tendenza con Milano e poche altre aree metropolitane che hanno espresso una geografia del voto modernista, ottimista ed europeista contro il vasto consenso raccolto nel profondo Nord dalla Lega e nel Sud dal Movimento 5 Stelle. Ebbene nei giorni del Salone del Mobile tutto ciò è stato come messo tra parentesi, la formula che abbina la vera e propria fiera degli industriali del legno-arredo con un Fuorisalone più glamour e ricercato funziona. Gli stranieri impazzano sia là che qua. La locomotiva milanese diventa un treno con molti convogli, ciascuno con le sue specificità economiche e culturali e alla fine la somma non fa zero. Tutt’altro. Milano e la Brianza, per usare due topos che servono a indicare retroterra socio-culturali assai distinti tra loro, si esaltano a vicenda e la Design Week è la celebrazione dei fasti dei designer internazionali più celebrati ma anche della forza delle filiere industriali che affondano le loro radici nei territori del Lombardo-veneto. La dimostrazione ultima che la cesura élite-piccoli nella settimana del design che si chiude viene anche dai comportamenti dei due leader del voto «della campagna», Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Entrambi sono venuti in pellegrinaggio al Salone ad applaudire «l’italia migliore», non hanno trovato cose particolarmente originali da dire, né hanno pensato neanche un momento di giocare sulle contrapposizioni. Per tirar fuori una polemica di giornata c’è voluta la fantasia del grillino lombardo Dario Violi che per farsi notare ha detto ai giornalisti che «i finanziamenti pubblici vanno dati alle Pmi e non alle multinazionali». Ma chiuso il Salone gabbato lo santo. C’è da scommettere che quella linea di frattura tra la Milano cosmopolita e l’astio dei territori è destinata in qualche maniera a riproporsi. Quale che sia la soluzione governativa che sarà trovata finirà per rivelarsi una coperta corta (con Lega-5 Stelle i global restano idealmente fuori, con 5 Stelle-pd è il profondo Nord a rimanere escluso) ma soprattutto con la probabile vittoria di Massimiliano Fedriga in Friuli-venezia Giulia avremo un Settentrione a forte trazione leghista. Non saranno poi solo gli accadimenti politici a tenere vivo il focolaio delle divisioni: Milano è una formidabile calamita di investimenti e la sua capacità di attrazione può preoccupare i territori. I quartier generali delle grandi aziende cominciano a spostarsi verso la metropoli lasciando in provincia la sola manifattura: era successo qualche tempo fa con la Whirlpool che aveva lasciato il Varesotto, la bellunese Luxottica ha nei giorni scorsi annunciato che realizzerà in zona Tortona il suo hub digitale e appena Riccardo Donadon ha visto che per il polo scolastico della sua Hfarm le procedure burocratiche a Treviso andavano per le lunghe la prima cosa che ha detto è stata «allora mi sposto a Milano». Riuscirà la capitale del Nord a ricucire tutte queste spinte esaltando però la propria centralità? Vedremo, di sicuro con tutte le drammatiche sfide che ci aspettano viene da dire che una contrapposizione città-campagna non ce la possiamo permettere. È fuori budget.