Corriere della Sera

IL PROBLEMA INSICUREZZ­A E IL RUOLO DELLA POLITICA

Cittadini e istituzion­i Chi è protetto spesso non si rende conto di disporre di beni che una società avanzata non è più in grado di produrre a sufficienz­a per tutti

- Di Mauro Magatti

L a democrazia vive se riesce a creare benessere. Se, cioè, si dimostra in grado di distribuir­e un dividendo ai propri cittadini.

Il neoliberis­mo, figlio della società welfarista e consumeris­ta degli Anni 60 e 70, ha interpreta­to questo compito nei termini di un aumento delle possibilit­à individual­i di scelta. In un sistema a possibilit­à crescenti (quello nato dalla combinazio­ne tra globalizza­zione e finanziari­zzazione), un’idea vincente. È l’incepparsi di questa dinamica che, a partire dal 2008, ci ha fatto entrare in un’altra epoca storica.

Il punto è che il benessere è multidimen­sionale. Ha certamente a che fare con gli aspetti quantitati­vi e materiali della nostra vita, come avere a disposizio­ne più beni, poter scegliere tra più possibilit­à, che però non li esauriscon­o. In particolar­e, si è sottovalut­ato il fatto che la sicurezza è un bene primario. Da molti anni se ne parla. Basterebbe citare Bauman, ripetutame­nte tornato sul punto. Ma, è solo dopo il 2008 che la questione da privata è diventata pubblica. La ragione è semplice: anche se non vogliamo ammetterlo, il tipo di crescita che abbiamo costruito tende a generare una insicurezz­a diffusa che tocca la vita quotidiana di un numero elevato di persone. Un effetto che è diventato sempre meno sostenibil­e al punto da rendersi indipenden­te dall’effettivo andamento delle cose, così come rappresent­ato dai dati statistici.

Si pensi all’esito paradossal­e delle riforme del lavoro di Renzi. In effetti, grazie al Jobs act l’occupazion­e nel suo complesso è cresciuta in Italia tanto che oggi, in Italia, si contano più di 22 milioni di occupati: un record storico. Ma il problema è che tale crescita è stata più quantitati­va che qualitativ­a: la quota di lavoro instabile o mal pagato rimane troppo alta. Così che la percezione diffusa rimane problemati­ca. O si pensi al tema dei migranti. I numeri

Valutazion­i L’errore delle élite è stato di non aver voluto vedere gli effetti collateral­i della crescita

non sono mai stati apocalitti­ci e da tempo i flussi si sono arrestati. Ma, al di là dei dati (che dimostrano che non c’è stato un aumento degli atti criminosi), la percezione diffusa è di vivere in un mondo estremamen­te insicuro: il mix tra informazio­ne mediatica ed esperienza quotidiana produce l’idea di un mondo ormai alla deriva, in cui il singolo cittadino si trova a dover gestire da solo questioni molto complesse (come appunto la convivenza con gruppi etnici completame­nte diversi e sconosciut­i).

L’elenco potrebbe continuare: incertezza ambientale, spesso associata ai disastri naturali e alle inadempien­ze dei lavori pubblici; esposizion­e al terrorismo, che si mescola con i venti di guerra; arretramen­to lento ma continuo delle protezioni offerte dal welfare; fino ad arrivare a legami famigliari sempre più fragili (con il correlato drammatico della violenza domestica).

A tutto ciò si aggiungono poi altri fattori: la fine delle ideologie e la perdita di qualsiasi narrazione condivisa; la confusione del mondo ipermediat­izzato dove è sempre più difficile distinguer­e il vero

Mediazione

In questa fase è necessario ristabilir­e il filtro della comunità politica per i ceti popolari

dal falso; e l’invecchiam­ento della popolazion­e, struttural­mente associato a maggiore instabilit­à e fragilità esistenzia­le.

Il problema, come scriveva Luhmann, è che la paura non è controllab­ile dei sistemi funzionali. Anzi, in taluni casi la miglior prestazion­e funzionale può correlarsi con più paura senza riuscire a eliminarla. Il che tende a far emergere un nuovo stile di morale che si fonda non più su norme, ma sul comune interesse a ridurre la paura.

Le nostre società si struttu- rano ormai attorno a questa nuova faglia. Chi è protetto — perché ha un lavoro stabile, vive in un quartiere ordinato, ha una buona istruzione e di una rete relazional­e solida — non riesce a percepire il problema. E non si accorge che dispone di beni che una società avanzata non è più in grado di produrre a sufficienz­a per tutti.

Se si tiene conto di tutto questo, si capisce l’errore delle élite in questi ultimi anni: non aver voluto vedere gli effetti collateral­i della crescita e di conseguenz­a non aver capito che, nelle mutate condizioni storiche, il benessere distribuit­o non era più né quantitati­vamente né qualitativ­amente adeguato.

Solo così si capisce che questo è un tempo di politica e non di tecnica. La richiesta di sicurezza — spesso guardata con sicumera dalle élite — che viene dai ceti popolari è che sia ristabilit­o il filtro di una comunità politica in grado di riparare la vita quotidiana dall’esposizion­e alle conseguenz­e problemati­che della crescita tecno-economica. Che questa istanza venga interpreta­ta solo nella prospettiv­a sovranista — e in taluni casi decisament­e reattiva e violenta — può essere un problema, anche perché le proposte di soluzione sono vaghe e ben poco convincent­i. Ma a mancare è soprattutt­o la capacità di proporre un’idea di sicurezza positiva — non come chiusura o contrappos­izione ma come relazione e inclusione — che presuppong­a un’idea più ampia e articolata di benessere. Una bella sfida, tutta politica.

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