Giovanni, il prete partigiano «La solidarietà fu la nostra forza»
Monsignor Barbareschi: da noi sacerdoti una testimonianza autentica
MILANO «La forza più grande della Resistenza non è stata quella armata, bensì quella di tutte le persone che si opponevano con un gesto, con una mentalità, con un rifiuto. Fu una resistenza morale, alla quale noi preti abbiamo dato una testimonianza autentica». Per don Giovanni Barbareschi il 25 Aprile non è una festa «laica». Perché lui c’era, perché lui quella lotta sfociata nella Liberazione l’ha fatta.
Oggi a 96 anni, compiuti in febbraio, le forze sono quelle che sono, ma la memoria resta viva, rinfocolata in questi giorni di celebrazioni anche dalla riedizione di un libro (Ribelli per amore), curato proprio da lui per il Centro Ambrosiano. Raccoglie le testimonianze di preti e religiosi che tra il 1943 e il 1945 si impegnarono a proprio rischio per mettere in salvo ebrei, perseguitati politici, renitenti alla Repubblica di Salò e anche a sostegno dei partigiani.
Tra quelle storie c’è anche la sua, quella di «uno scout diventato prete». È proprio insieme ad altre «Aquile randagie» dei disciolti reparti scout che, nel 1943, il ventunenne seminarista e diacono Barbareschi partecipa alla fondazione e alle attività dell’oscar (Organizzazione soccorso cattolico antifascisti ricercati). Riunioni segrete al Collegio San Carlo di Milano e azioni lungo i passi di montagna al confine con la Svizzera. Intanto è impegnato anche nella redazione e diffusione de il Ribelle, foglio clandestino delle Brigate fiamme verdi che «esce quando può», come sta scritto sotto la testata. «La cosa più bella della Resistenza fu la nostra solidarietà, gli uni con gli altri — gli piace ricordare —. Non importava se eri comunista, prete, socialista o liberale: eravamo persone che resistevano e questo ci rendeva uniti».
Il 10 agosto 1944, in piazzale Loreto, i fascisti della Brigata Muti fucilano quindici partigiani e lasciano i cadaveri esposti come monito per gli operai in sciopero. Sebbene non ancora prete, viene delegato dal cardinale Ildefonso Schuster a benedire le salme. «Mi inginocchiai e quando mi rialzai vidi una piazza piena di gente inginocchiata», racconta. Tre giorni dopo, viene ordinato sacerdote dallo stesso arcivescovo. Il tempo di celebrare la sua prima messa e viene arrestato dai tedeschi e rinchiuso a San Vittore. Subisce un interrogatorio durissimo, ne esce con un braccio spezzato, ma al rientro in cella viene accolto da gavette e forchette battute contro le sbarre, perché si è saputo che non ha parlato. Viene rilasciato su intervento del cardinale Schuster, al quale pochi giorni dopo comunica, insieme all’amico don Carlo Gnocchi, di aver deciso di entrare nella Resistenza. «Fate quello che dice la vostra coscienza — è la risposta di Schuster — la libertà non si dimostra, ci si crede». I nazisti lo arrestano ancora, ma riesce a fuggire durante il trasferimento verso un lager tedesco. Nei giorni successivi al 25 aprile si prodiga per evitare linciaggi agli ex aguzzini presi prigionieri.
Nel dopoguerra, don Giovanni Barbareschi si è impegnato in mille iniziative, è stato nominato monsignore, ha ricevuto una medaglia d’argento alla Resistenza, un Ambrogino d’oro e un albero nel Giardino dei Giusti. Non ha mai archiviato la sua coscienza antifascista. «Il fascismo è un modo di vivere sempre in agguato, nel quale ci si arrende per amore di quieto vivere o di carriera, il fascismo è una mentalità», ha detto più volte. E l’italia di oggi non lo lascia tranquillo. Perché «questo Paese ha la tradizione di se stesso, non la memoria».
I 15 martiri di Milano «Fui io a benedire le loro salme, intorno a me una piazza di gente inginocchiata»