Corriere della Sera

Romanzieri & C. Chi (non) ha paura del lieto fine

«Tirature ’18» di Spinazzola

- di Cinzia Fiori

Chi ha paura del lieto fine? Si potrebbe proporre così il tema del saggio di Vittorio Spinazzola e di Tirature ’18: Lieto fine. Da 27 anni, sempre sotto la cura del professore emerito della Statale di Milano, la prima sezione dell’almanacco — che mette in rapporto scrittura, editoria e pubblico — è dedicata a un argomento attuale, approfondi­to nei suoi aspetti da più studiosi. Spinazzola critica la convinzion­e che il lieto fine sia «segno di una narrativa condotta per assecondar­e la povera mentalità di ceti e categorie di fruitori di piccolo rango», si riferisce al romanzo di genere e non solo. Porta esempi di opere che, pur mantenendo coerenza, risarcisco­no parte delle traversie che il protagonis­ta ha dovuto subire. Dai Promessi sposi a La romana di Moravia. Viene da notare la ricorrenza nel suo testo di due espression­i: «attivismo positivo» e «vitalità». Appaiono come la spia di un cambiament­o della mentalità di chi legge rispetto al Vittorio passato.

Spinazzola Ad approfondi­re questo

aspetto è Mauro Novelli con il successo dei noir. Spariti i gialli classici, la lezione più seguita è quella di Sciascia che, però, si è fusa con l’hard boiled: «Alzando la temperatur­a sentimenta­le» e sposando la suspense. I crimini non son confinati nei primi capitoli e i detective sono persone complesse, non rigorose nei confronti della legge (si pensi a «Rocco Schiavone che spara in faccia all’assassino della moglie»). E questo è un punto di riaggancio alle espression­i evidenziat­e nel testo di Spinazzola. Chi ha più fiducia nelle istituzion­i? «Se la società è marcia e la corruzione sistematic­a il tintinnare di manette acquista un’eco beffarda». Spinazzola sa quanto vivono i lettori, e quanto gli stati d’animo vincenti e l’attivismo positivo siano in difficoltà oggi. Ne parla Gianni Turchetta in Finali quasi felici, dove tornano i termini evidenziat­i in Spinazzola. Benché avverta: «Proprio perché la realtà non smette di essere inospitale, ogni happy end appare come una concession­e discutibil­e». Ecco così «Il finale felice, ma non ancora» (esempio: La ragazza di Bube di Cassola) e «Il finale felice ma forse (troppo) tardi» (esempio: L’amore ai tempi del colera di García Márquez) perché «anche la parziale salvezza deve continuare a ribadire la tragicità della Storia».

Come ricorda Bruno Pischedda, un ruolo molto rilevante nella messa fuori campo dell’happy end l’ha giocato la Scuola di Francofort­e. Ma, nella sua analisi, segnala Umberto Eco sin dal titolo: Eco, o il romanzo popolare triste. Quanto più si rifà al genere, tanto più lo scrittore postmodern­o ne rifiuta gli esiti speranzosi. Un programma annunciato sin dall’almanacco Bompiani ’72 che anticipava l’attualità. Tirature, uscito in ebook gratuito (edito da Fondazione Mondadori e il Saggiatore), centra un punto critico, tanto che di recente su copertine di stimati autori escono frasi come questa: «A differenza della maggior parte dei suoi colleghi scrittori, non ha paura del lieto fine».

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Gianluigi Masucci, Movimenti ricorrenti (2016, china su carta, particolar­e), courtesy Other Size Gallery, Milano
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