Sesso e violenza negli incubi di Shostakovich
Sesso e violenza, certo, senza risparmio, nella Lady Macbeth del distretto di Mtsensk di Shostakovich, diretta da Juraj Valcuha al Teatro San Carlo di Napoli. La regia di Martin Kušej in arrivo da Amsterdam addenta il nucleo brutale di questo capolavoro del 1936, stroncato all’epoca da un minaccioso attacco della Pravda. La serva Aksinja spogliata e quasi violentata dalla turba degli operai; l’amplesso animalesco dei due amanti, Katerina e Sergej, esploso in una sequenza-incubo di flash e buio; la fustigazione sanguinaria del reo; l’assassinio del suocero e del marito della protagonista trovano esiti realistici e gran perizia di movimenti scenici.
Ben altro, però, è ciò che qui più avvince. Non certi guizzi farseschi (i poliziotti che sbucano da sotto la tavolata di nozze) né lo sforzato Sergej di Ladislav Elgr. Ma il gelo, la solitudine in cui scena e musica sono tutt’uno. La spoglia teca trasparente che «non» rinchiude la voce matronale di Natalia Kreslina: una Katerina che, rigida nel tedio come nella foia, «crolla», poi, con toccante disperazione, nel finale, tra i reietti in marcia verso il gulag. Alla sua altezza il potente Boris di Dmitry Ulianov, i cori (del San Carlo e del Mariinskij), l’umanità del Vecchio Prigioniero Vladimir Vaneev. E su tutto Valcuha stesso, capace di infondere colore narrativo agli squarci ritmici più efferati, plumbea desolazione ai passi più commoventi. Con lui, l’incedere dei pizzicati, le attese, gli unisoni sinistri, la trasparenza maligna delle polifonie trasformano il senso dell’opera da libido famelica a dolore universale.