La voce alterata di Latini per quell’amore mistico
C i dà filo da torcere il Cantico dei Cantici. Lo avevamo letto quando eravamo ragazzi. Ma lo trascurammo nel senso del suo senso (del suo significato, della sua storia). Lo avevamo incontrato, noi teatranti e ignoranti, in uno spettacolo di teatro-danza. Era di Virgilio Sieni, a Santa Croce in Gerusalemme, Roma: uno spettacolo di inaudita dolcezza.
Non c’eravamo presa la briga di saperne di più. Sapevamo però di Santa Teresa o che, suggerisce il lusitanista Vincenzo Arsillo, La poesia dei doni di Borges è forse un commento al Cantico; e che del Cantico, tra i moderni che amiamo, non avrebbero potuto non parlare Rebora o Luzi, Miller o Roth o, chissà, Bataille. E più tardi non lo citò in epigrafe Danilo Kiš in Enciclopedia dei morti, nel capitolo dedicato a quel traduttore Mendel Osipovich?
Ricordavamo infine — come avremmo potuto dimenticare — la scena di C’era una volta in America in cui da ragazzino Robert De Niro s’innamora di colei che ritroverà tanti anni dopo? Ignoravamo le cose fondamentali. Che il grande rabbino Aqiba nel 130 ne aveva decretato la legittimità: che di rigore fosse uno dei libri della Bibbia: anche il Cantico era una scrittura sacra. O che tanti secoli dopo in una lettera Dietrich Bonhoeffer ne ribadiva il valore di canto dell’amore terreno. Ma non proprio così pensa il suo (per noi italiani) più illustre traduttore, Guido Ceronetti. Non proprio versi pregni di un qualche immediato simbolismo erotico, ma un testo che si sottrae caparbiamente alla fissazione del dramma, alla «mania dell’azione scenica». Si commenta il Cantico, dice Ceronetti, «per un’oscura intolleranza del suo vuoto: riempirlo, metterci Dio. Se non c’è Dio allora è più che mai divino».
Quella tensione dell’uno all’altro (all’altra) invero è atto di conoscenza, lotta per la Sapienza, otto capitoli di amore gnostico: il contrario che l’inepte rhapsodie di Voltaire.
È dunque esaltante imbattersi infine nel Cantico di Roberto Latini, mai «azione scenica» fu più contagiosa, mai un performer raggiunse tali livelli di profondità interpretativa: o solo un erede, quale lui è, di Leo de Berardinis. Non so descriverla, questa azione. Posso dirne i tratti elementari, né derisori rispetto alla lettura mistico-sapienziale o supini rispetto alla lettura in chiave erotica. Chiuso da un piccolo schermo c’è un ragazzo (è lui, travestito con una parrucca che si strapperà più tardi). Una scritta annuncia che si attiva. Due microfoni ne amplificano la voce.
Quando ne spegne uno, la voce si abbassa (ma sempre si sente). Procede a scatti, come fosse nervoso, anzi isterico. Tre volte, o quattro, si alza in piedi, vortica o marcia in danza, afferra quel microfono alla sua destra, quell’alberello alla sua sinistra, ne fa uno stendardo, la bandiera della sua virilità. Poi si siede, prostrato, su quella panchina. Poi si riprende. Poi abbandona. Ma il tutto è la sua alterata, cavernosa voce: il suo sensuale amore, il suo mistico amore — per il teatro, per la poesia.