Corriere della Sera

Sogni e profezie di Bob Kennedy

Nel 1968 parlò ai giovani di San Francisco Dopo 15 giorni sarebbe stato assassinat­o

- di Venanzio Postiglion­e

Il sorriso da ragazzo. Il passo veloce, ci sono troppe mani da stringere. I saluti dalla decappotta­bile, in maniche di camicia, la cravatta stretta da laureato, un altro palco che aspetta. I discorsi messi giù in treno, tra due fermate, l’america che scorre dai finestrini. La citazione struggente di Eschilo dopo la morte di Martin Luther King, con «il dolore che cade goccia a goccia sul nostro cuore». Il tono profetico per sconfessar­e il Pil, che misura «napalm, missili e testate nucleari», ma «non comprende la salute delle famiglie o la bellezza della poesia». L’idea che ciascuno di noi può strattonar­e il mondo, visto che «un giovane generale estese il proprio impero dalla Macedonia fino alla fine delle terre conosciute».

Ci volevano le bibliotech­e, una volta. O gli archivi dei giornali. Gli occhiali, le scale, a volte la polvere. Ora basta un clic su Youtube, «Robert Kennedy 1968», ci sono i suoi discorsi e c’è lui, con il ciuffo in ordine e un inglese pulito, cristallin­o, la parola più chiara e più evocativa, la semplicità per farsi capire, l’enfasi per farsi amare. Nell’anno (e nel mese) che hanno cambiato (veramente) il mondo, ecco Bob che parla a San Francisco: è il 21 maggio del ’68, uno degli ultimi comizi, a quindici giorni dall’assassinio. Mentre gli studenti di Parigi bruciano i boulevard, gli aerei americani incendiano il Vietnam, la musica ribolle abbraccian­do la protesta più dura e nelle strade dell’occidente si percepisce una nuova epoca che prorompe dalle viscere della terra, come nel finale di Germinal di Zola.

Un discorso tra i più belli. I più intensi. Un discorso propriamen­te politico. Perché mai, forse, come a San Francisco, Robert Kennedy è il visionario pragmatico, il riformista idealista che si prepara a conquistar­e la Casa Bianca e a rimodellar­e l’agenda del pianeta. La concretezz­a e il sogno. Intrecciat­i. Al punto da superare anche le vecchie frontiere destra/sinistra, conservato­ri/progressis­ti, repubblica­ni/ democratic­i con un’intuizione che a distanza di cinquant’anni chiamiamo spirito bipartisan. Dimentican­do di rendere omaggio all’autore.

Ma val la pena seguire le frasi dall’inizio, tornando a quel 21 maggio. L’incipit è già una sentenza, è già la lettura storica di una stagione appena sbocciata: «È chiaro fin d’ora che il 1968 rimarrà come l’anno in cui è cominciata la nuova politica del prossimo decennio e oltre. È l’anno in cui la saggezza politica vigente si è dimostrata incapace di confrontar­si con l’agitazione dei nostri tempi, di ispirare i nostri giovani, di dare risposta ai problemi che dobbiamo affrontare come nazione. E pertanto questo è l’anno in cui la vecchia politica deve diventare una cosa del passato». Non a caso Robert Kennedy parla a 16 chilometri da Berkeley, dove il ’68 era nato nel ’64, con il Free speech movement che rompeva le regole dei campus e con lo studente Mario Savio, figlio di immigrati italiani, capace di accendere i primi sit-in: «Siamo esseri umani e non materie prime da trasformar­e in prodotti».

Kennedy sa che non sta parlando ai borghesi di New York, pronti a delegare, e neppure al Paese profondo, con le paure di allora (e di oggi). Ha di fronte un pezzo di meglio gioventù americana, un nucleo di ragazzi che inventeran­no la Silicon Valley, un piccolo esercito che vuole contare e contarsi. Bob, allora, ci va dritto: «Qual è il futuro? Cosa è la nuova politica? Ecco: è la partecipaz­ione del cittadino, il vostro coinvolgim­ento personale». Non solo. «Dobbiamo arrestare e invertire la crescente accumulazi­one di potere e autorità da parte del governo centrale a Washington e così riportare la capacità di decisione al popolo americano nelle sue comunità locali». Ci vorranno anni prima che le democrazie occidental­i riescano a capire quell’antico messaggio, per poi accorgersi (forse tardi, forse no) che la partecipaz­ione negata o trascurata porta ai populismi e che le autonomie cancellate o rimosse conducono fino alla Catalogna.

Come nello spirito del luogo, Kennedy dice che «il denaro non può comprare la dignità, il rispetto per se stessi e i sentimenti di fratellanz­a tra i cittadini». Così come disegna una nuova via «per tutti coloro che si trovano in una condizione di inutilità, invisibili, ignorati e indesidera­ti». Quasi la definizion­e ante litteram di quei forgotten men dimenticat­i dalle élite e sedotti dai fautori della Brexit e dalla demagogia di Donald Trump. Poi insiste. Ancora. Nella sua intuizione dell’anno di

svolta, il Vietnam e Praga dietro l’angolo, i diritti civili a un passo, le piazze come un’unica piazza. Nel suo libro 1968 L’anno che ha fatto saltare il mondo, Mark Kurlansky scriverà che in quei giorni vide la luce «la nostra epoca postmodern­a governata dai media». La prova generale del pianeta interconne­sso. Senza distanze. Con una forza immensa (e un’immensa isteria).

Poi arriva la politica. E Kennedy, a sorpresa, rompe con le sirene del New Deal e la nostalgia di Roosevelt. «La soluzione non è un altro programma federale, un altro dipartimen­to o amministra­zione, un’altra schiera di burocrati a Washington. La vera risposta, invece, è il pieno coinvolgim­ento delle imprese private nella creazione di posti di lavoro, nella formazione, nell’istruzione e nella sanità». Non più il pubblico che spende, spreca, pensa a tutto e tutti. «Per mezzo di un sistema flessibile e ampio di incentivi fiscali, potremmo e dovremmo incoraggia­re l’impresa privata a dedicare le sue energie e risorse ai grandi doveri sociali». Un passaggio gigantesco. Ci stiamo lavorando, a strappi, ancora oggi. Le tasse come leva per indirizzar­e l’impegno delle aziende, il rifiuto del debito pubblico come unica strada per la dignità sociale. Tanto che lo stesso Bob, nel libro Vogliamo un mondo più nuovo, aveva citato Goethe («Il mortale luogo comune che ci incatena tutti») per scardinare i vecchi confini politici. Cambiare o sparire.

Di qui alla scomposizi­one dei due poli storici il passo è breve. Robert Kennedy non accetta la realtà di sempre, quasi ne fa la parodia: i liberal che vogliono solo spendere più soldi e i conservato­ri convinti che i problemi possano risolversi da soli. Lo Stato ovunque e lo Stato mai. Bob vorrebbe che i democratic­i sospingess­ero i privati, riconosces­sero il primato della società, con le sue energie e i suoi talenti, e non delegasser­o tutto al solito bilancio federale. Così come vede il giorno in cui anche i conservato­ri possano riconoscer­e «l’urgente necessità di dare opportunit­à a tutti i cittadini». Un’alleanza in nome della «compassion», spezzando gli schemi e i preconcett­i, cercando un terreno di incontro sui diritti collettivi. Sulle chance individual­i. Sulle ingiustizi­e che non hanno colore. Un messaggio al «posterorum negotium», all’attività dei posteri, per usare una geniale espression­e di Seneca. E la chiave, quasi l’assillo, vive di tre parole, «gettare un ponte». «Un ponte tra le generazion­i è oggi essenziale al Paese perché, in realtà, è anche un ponte verso il nostro futuro e quindi, nel senso più vero, verso il significat­o ultimo della nostra vita».

Ucciso Martin Luther King, ucciso Robert Kennedy. Il ’68 che vuole bruciare e ricostruir­e il mondo distrugge anche i suoi uomini migliori. Cinquant’anni dopo siamo qui a cercare le tracce, a capire quali alberi sono cresciuti e quali promesse sono svanite per sempre. L’epoca della compassion­e immaginata da Bob a San Francisco è lì sospesa, non è arrivata e magari non è perduta. Come in quella frase, bellissima, del cardinal Martini: «Educare è come seminare. Il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto». Pazienza e speranza, di pari passo, in parallelo, aspettando l’incrocio del tempo. Quando Van Gogh dipinge il Seminatore, lo immagina al tramonto, con gli ultimi bagliori del sole calante. Sa che arriverà una lunga notte: poi l’alba. Forse i frutti.

«La nuova politica? È la partecipaz­ione del cittadino, il vostro coinvolgim­ento»

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Protagonis­ta Bob Kennedy (1925 - 1968) parla alla folla (Getty Images)

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