Pietro Marzotto, il combattente che diventò re dei tessuti
Guidò il gruppo di Valdagno per 16 anni. «Volevo fare il professore»
Pietro Marzotto se n’è andato. Erede di una delle grandi dinastie industriali italiane che affondava le radici negli antichi opifici della Valle dell’agno, fu tra i primi a cercare di tenere insieme il paese e il mondo, la dimensione locale e quella globale, facendo della sua società una delle eccellenze della nostra imprenditoria. Sempre con la schiena diritta. E un pizzico di ironia.
«Vieni?» «Sì». «Con la bombola?» «Sì». Ci voleva ben altro che il fastidio di tirarsi dietro una bomboletta di ossigeno per scoraggiare un combattente come Pietro Marzotto. E così, ancora pochi giorni fa, aveva cercato fino all’ultimo di essere presente al palladiano Teatro Olimpico, per raccontare al Festival Città Impresa l’ultimo mezzo secolo del suo Veneto, della sua Vicenza, della sua Valdagno: «Il 1° gennaio 1968 diventai direttore con pieni poteri, il 19 aprile la statua di mio nonno venne buttata giù». Si bloccò un attimo: «Oh, ma non parlemo solo de robe vecie! Parliamo di oggi. Se no sto a casa».
Così era fatto, l’uomo che per alcuni decenni ha rappresentato uno dei punti di riferimento della grande e più illuminata imprenditoria italiana. Lunedì mattina, già ricoverato in condizioni critiche all’ospedale di Portogruaro, dove si sarebbe spento ieri, ancora raccomandava agli amici di non mancare alla festa campestre che dava da anni per il 25 aprile nella sua tenuta di Zignago, sospesa tra la terra e le acque dalle parti della laguna di Caorle. Amava gli amici, e gli amici amavano lui.
Nato a Valdagno l’11 dicembre 1937, battezzato con il nome di Badoglio («Fu mio padrino virtuale. Disse a mio padre: sarà un maschio, si chiamerà Pietro. Disse anche: sarà maresciallo d’italia. Ma lì si sbagliò»), era ultimo di sette fratelli eredi di una antica dinastia laniera. Dinastia affermatasi nella valle dagli anni Trenta dell’ottocento e diventata via via un colosso italiano e mondiale noto anche per l’edificazione della «Città sociale» e il capitalismo paternalista: l’asilo Marzotto, la piscina Marzotto, i quartieri Marzotto, la scuola Marzotto…
Sulle prime, il giovane Pietro pareva buttar bene sullo sci nautico (vincerà due campionati europei), meno nello studio. «Finché mio padre mi mise a fare l’apprendista operaio: un giorno al reparto filatura, l’altro alla tessitura e così via. Sempre in nero: non mi versava i contributi. Dopo qualche anno di questa vita preferii iscrivermi all’università. Studiai legge a Milano e, una volta laureato, avrei voluto fare il professore. I consigli di mio padre e i magri stipendi da docente mi hanno convinto a tornare in azienda».
Da quel momento, su, su, su: direttore centrale nel 1968, amministratore delegato nel 1972, presidente nel 1982… Tutte date pari. Per le acquisizioni chiave invece, rideva, preferiva gli anni dispari: nell’85 gran parte della Finbassetti, nell’87 la Lanerossi (storica conquista di Schio da parte della signoria di Valdagno), nell’89 la francese Leblan (prima campagna acquisti all’estero), nel ’91 la tedesca Hugo Boss che quattro anni dopo avrebbe fatturato quasi 800 milioni di euro d’oggi. «Ora gli stranieri fanno shopping tra le aziende italiane», ricorderà lo storico Giorgio Roverato alla festa per gli ottant’anni celebrata a Valdagno dove il vecchio leone, coccolato dalla moglie Anna e dai figli arrivò col suo «ossigeno da passeggio» reggendo impavido un’ora e mezzo di dibattito. «Questo lo fa ancora più grande», sospira Romano Prodi, «Così era. Un uomo profondo, attento, corretto, che sapeva ascoltare».
Presa in mano l’azienda in momenti difficili, sotto il peso di quella statua abbattuta, a metà degli anni 90 Pietro Marzotto era alla guida di un gruppo «primo al mondo nel lino, primo nei tessuti di lana, primo nell’abbigliamento formale da uomo», con un fatturato netto intorno ai 2.600 miliardi di lire e stabilimenti in tutta Europa che producevano, stando alle stime, «oltre nove milioni di capi l’anno: un milione di abiti, un milione di giacche, tre milioni di pantaloni...».
A lungo vicepresidente di Confindustria e candidato più volte al vertice (possibile che un veneto non fosse mai riuscito a guidare l’associazione nonostante il boom regionale?) liquidò sempre le polemiche ammiccando: «Ma no, mi hanno offerto la presidenza più volte, ma ero io a non essere disponibile. Io mi sono sempre sentito un industriale, non un confindustriale. Anzi, ci abbiamo sempre riso sopra: noi industriali passavamo sei giorni in azienda e uno in Confindustria. I confindustriali il contrario».
Legatissimo ai fratelli e alla famiglia, spiegò a Giancarlo Mazzuca che all’ereditarietà dello spirito imprenditoriale non credeva: «Può darsi che qualche cromosoma si trasmetta di padre in figlio ma l’azienda non può essere considerata una specie di monarchia». E concluse: «Ai miei figli ho dato questo consiglio: occorre farsi le ossa in un’azienda esterna. Se poi uno ha dimostrato di saper farsi valere può tornare nella fabbrica di papà per essere pronto a succedergli. In caso contrario, è meglio che cambi mestiere».
Nel giugno del 2004, decise infine di chiudere. A dire il vero si era già allontanato da tempo dai ruoli operativi in azienda definendosi «un semplice azionista che riscuote i dividendi». «Ecco, adesso non è più nemmeno azionista», scrisse sul Giornale di Vicenza Marino Smiderle, «ha venduto le sue azioni per oltre 100 milioni di euro, chiudendo, di fatto, un’epoca. Con l’azienda della sua vita, da ieri, ha in comune soltanto il cognome». E un’amarezza confidata anni dopo così: «Avevo una visione diversa dalla maggior parte degli azionisti. Pensavo a molti soci con dividendi ordinari, loro invece a un’azienda più magra con dividendi più alti. E hanno venduto Hugo Boss. Non ero d’accordo».
Lasciata l’azienda che aveva contribuito a far diventare grande, si dedicò («con minor successo», strizzava l’occhiolino) al problema dei cormorani nella tenuta di Zignago, che il padre aveva venduto e lui ricomprato: «Sono una pestilenza. Mi fan fuori tutto il pesce sfalsando ogni equilibrio ambientale. Pare che tutti i cormorani del mondo si siano dati appuntamento da me». Fra i canali, le valli da pesca, i cipressi, gli olmi, i pioppi e i cedri, giurava, si trovava da re: «È anche un modo per ringiovanire un po’. Sa, sempre tessuti, confezioni, giacche... Uno invecchia».
Orgoglioso che nel 1943 il padre avesse «assunto 2.000 operai per evitare la loro deportazione in Germania», liberale, vicino alle ragioni del centro sinistra, confidava di aver subito troppe delusioni: «Soprattutto da Matteo Renzi: da lui mi aspettavo molto. Berlusconi? Da lui non mi aspettavo nulla». Sui leghisti sbuffava, sui grillini brontolava: «Boh…». Non sopportava «l’ostilità preconcetta al cambiamento che ha portato a un degrado drammatico. Causa del problema numero uno: la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni. Questo teatrino, questo spettacolino…». Non smise mai, però, di ribadire: «Ci vuole rispetto per le istituzioni: ce l’ho per il Parlamento, anche se non lo merita. E per il governo, anche se fa delle sciocchezze. Rispetto».
Amava il mare, i fiumi, gli stagni e le lagune dove andava a caccia. Rifiutava l’acqua da bere ridendo con smorfie esagerate: «Puah! Passami il vino». Amava far da mangiare: «In vacanza posso perdere anche tre ore al giorno per far la spesa e un paio ai fornelli». Più ancora amava dividere pane, pesci e bicchierate con le persone cui voleva bene. Mancherà. Non solo a loro.
Lasciata l’azienda si era trasferito nella tenuta di Zignago: tra canali, valli da pesca, cipressi e olmi, pioppi e cedri, giurava, si trovava da re