Corriere della Sera

LA STRADA PER MIGLIORARE I SERVIZI PER L’IMPIEGO

Lavoro Il punto di forza di modelli efficaci come quello tedesco o francese sta nella standardiz­zazione dei centri: vanno garantiti pari diritti ai cittadini di tutto il territorio

- Di Maurizio Del Conte Presidente Anpal (Agenzia nazionale per le politiche del lavoro)

Caro direttore, molti sembrano ritenere che la principale ragione del successo ottenuto dai Cinque Stelle nel voto del 4 marzo, in particolar­e nelle regioni del Mezzogiorn­o, risieda nel miraggio di un reddito di cittadinan­za visto quale elemento fondante di una svolta neo-assistenzi­alistica. Ho l’impression­e che si tratti di un abbaglio o, perlomeno, di una lettura riduttiva, che nasconde le difficoltà nel proporre una offerta politica forte e chiara in favore di quei tantissimi italiani che, travolti dalla più grave e lunga crisi economica dal dopoguerra, hanno perduto il lavoro o sono rimasti esclusi dalla possibilit­à di accedere ad una occupazion­e regolare.

Il combinarsi della crisi e della trasformaz­ione dei modelli di produzione del valore ha assestato un colpo durissimo al tradiziona­le asse intorno a cui, da sempre, ha ruotato in Italia l’incontro tra domanda e offerta, vale a dire l’asse fondato sulle reti personali di conoscenze. Con il blocco dell’accesso al pubblico impiego imposto dalla spending review e la crescente volatilità politica ed economica, in un mondo produttivo globalizza­to e soggetto a rapidi e repentini cambiament­i sia dal punto di vista delle trasformaz­ioni aziendali che dei fabbisogni di competenze e di profession­alità, le dinamiche di ingresso nel mercato del lavoro basate sui canali privati funzionano sempre meno. Al tempo stesso, però, l’allungamen­to della vita media e il ribaltamen­to della piramide demografic­a non consentono più di gestire la disoccupaz­ione attraverso un sistema di ammortizza­tori sociali che si configuran­o come un semplice scivolo verso la pensione, svincolati da processi di attivazion­e e di ricollocaz­ione dei disoccupat­i.

Le riforme degli ultimi anni, in particolar­e il Jobs act, hanno provato a rispondere all’esigenza di individuar­e un nuovo equilibrio tra politiche passive e politiche attive, sulla scorta di quel che avviene da tempo nei Paesi europei più virtuosi sul fronte delle performanc­e occupazion­ali. Eppure, in una campagna elettorale dove si è parlato moltissimo di lavoro, le politiche attive sono sparite dai radar. Si è preferito parlare di trasferime­nti economici nelle tasche dei cittadini-elettori perdendo completame­nte di vista ciò che, invece, è drammatica­mente mancato in questi anni: un efficace sistema di servizi sul territorio, capace di prendere per mano i disoccupat­i e accompagna­rli verso un percorso, anche graduale, di riconquist­a del lavoro.

Solo adesso, con la prospettiv­a di dover tradurre in concreta azione di governo la proposta del reddito di cittadinan­za, è balzato all’attenzione del dibattito pubblico il tema

d La proposta Il reddito di cittadinan­za è l’occasione per avviare una riflession­e sulle politiche attive

dei servizi per l’impiego. Come ha sottolinea­to Maurizio Ferrera sul Corriere, potrebbe essere una buona occasione per avviare una «pacata riflession­e post-elettorale sulla sfida lavoro-povertà», provare a concordare in Parlamento un’agenda di massima su questo fronte, immaginare una strada per potenziare i servizi per l’impiego, che lo stesso movimento Cinque Stelle vede come conditio sine qua non per il reddito di cittadinan­za. E, forse, potrebbe anche essere l’occasione per spostare il dibattito sul lavoro da un approccio prettament­e ideologico — si pensi alla rinnovata disputa sull’articolo 18 — a uno più pragmatico, incentrato appunto sui servizi, evitando l’errore di circoscriv­ere la questione al mero ambito della sostenibil­ità finanziari­a. Per- ché se è chiaro che — per reggere al confronto con gli altri Paesi europei — servono molte più risorse per le politiche attive del lavoro, non è altrettant­o chiaro che le risorse devono essere prioritari­amente indirizzat­e ai servizi. E tuttavia, per costruire un sistema che abbia possibilit­à di successo, è necessario sciogliere due nodi gordiani.

Il primo riguarda la governance. L’esito del referendum del 5 dicembre 2016 ha escluso una centralizz­azione nella gestione dei centri per l’impiego. Permane quindi un sistema ricondotto alla competenza regionale, ancora assai frammentat­o e disomogene­o. Salvo alcune lodevoli eccezioni, il decentrame­nto non ha prodotto una storia di successo nella gestione dei centri per l’impiego. Il loro riordino non

d L’agenzia L’anpal andrebbe rilanciata dotandola di profession­alità e finanziame­nti adeguati

potrà prescinder­e dall’individuaz­ione di un percorso che permetta di superare le esistenti forti divaricazi­oni fra i diversi territori, anche attraverso una maggiore responsabi­lizzazione degli operatori privati. Per fare questo ci vuole un forte coordiname­nto, facendo tesoro delle esperienze migliori per garantire in tutto il Paese servizi omogenei all’altezza delle crescenti richieste di aiuto da parte dei cittadini. Penso a un prototipo di centro per l’impiego riconoscib­ile su tutto il territorio e in grado di fornire ovunque gli stessi servizi, come avviene ad esempio per gli sportelli delle Poste. Il punto di forza di sistemi efficaci come quello tedesco della Bundesagen­tur für arbeit, quello francese del Pôle emploi o quello inglese del Job Center sta proprio nella stan- dardizzazi­one del modello dei servizi per l’impiego, dalle strutture centrali fino agli sportelli di prossimità con gli utenti. Il luogo di nascita o di residenza del cittadino non può essere un fattore di discrimina­zione nella fruizione dei servizi. Vanno garantiti pari diritti a tutti i cittadini su tutto il territorio. Per raggiunger­e questo risultato è necessario una più convinta cooperazio­ne tra Stato e Regioni.

L’altro nodo è rappresent­ato dalla burocratiz­zazione delle politiche attive, a cominciare dal livello nazionale. Si deve avere il coraggio di riconoscer­e che i problemi non sono dipesi soltanto dalla bocciatura referendar­ia, ma derivano anche dalle difficoltà legate alla architettu­ra dell’anpal, la Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. La procedura di formazione della Agenzia, condiziona­ta dal vincolo del costo zero, si è risolta in un’operazione di ingegneria burocratic­a, frutto dello spostament­o di pezzi di Amministra­zione pubblica, frustrando così la valorizzaz­ione della sua missione specifica e minandone l’efficienza organizzat­iva. Solo liberando l’anpal dai vecchi apparati burocratic­i, aprendola alle profession­alità e competenze davvero necessarie e dotandola di adeguate risorse finanziare si potrà creare anche in Italia una agenzia comparabil­e alle omologhe istituzion­i europee, in grado di governare la rete delle politiche attive in un mercato del lavoro sempre più vasto. E si potrebbe finalmente porre termine alla fase ormai storicamen­te superata della gestione degli ammortizza­tori in capo all’istituto di previdenza sociale, che aveva la sua ragion d’essere nello statuto novecentes­co dell’accompagna­mento morbido alla pensione. È tempo che ogni euro speso a sostegno del reddito abbia come obiettivo un nuovo lavoro.

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