LA STRADA PER MIGLIORARE I SERVIZI PER L’IMPIEGO
Lavoro Il punto di forza di modelli efficaci come quello tedesco o francese sta nella standardizzazione dei centri: vanno garantiti pari diritti ai cittadini di tutto il territorio
Caro direttore, molti sembrano ritenere che la principale ragione del successo ottenuto dai Cinque Stelle nel voto del 4 marzo, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno, risieda nel miraggio di un reddito di cittadinanza visto quale elemento fondante di una svolta neo-assistenzialistica. Ho l’impressione che si tratti di un abbaglio o, perlomeno, di una lettura riduttiva, che nasconde le difficoltà nel proporre una offerta politica forte e chiara in favore di quei tantissimi italiani che, travolti dalla più grave e lunga crisi economica dal dopoguerra, hanno perduto il lavoro o sono rimasti esclusi dalla possibilità di accedere ad una occupazione regolare.
Il combinarsi della crisi e della trasformazione dei modelli di produzione del valore ha assestato un colpo durissimo al tradizionale asse intorno a cui, da sempre, ha ruotato in Italia l’incontro tra domanda e offerta, vale a dire l’asse fondato sulle reti personali di conoscenze. Con il blocco dell’accesso al pubblico impiego imposto dalla spending review e la crescente volatilità politica ed economica, in un mondo produttivo globalizzato e soggetto a rapidi e repentini cambiamenti sia dal punto di vista delle trasformazioni aziendali che dei fabbisogni di competenze e di professionalità, le dinamiche di ingresso nel mercato del lavoro basate sui canali privati funzionano sempre meno. Al tempo stesso, però, l’allungamento della vita media e il ribaltamento della piramide demografica non consentono più di gestire la disoccupazione attraverso un sistema di ammortizzatori sociali che si configurano come un semplice scivolo verso la pensione, svincolati da processi di attivazione e di ricollocazione dei disoccupati.
Le riforme degli ultimi anni, in particolare il Jobs act, hanno provato a rispondere all’esigenza di individuare un nuovo equilibrio tra politiche passive e politiche attive, sulla scorta di quel che avviene da tempo nei Paesi europei più virtuosi sul fronte delle performance occupazionali. Eppure, in una campagna elettorale dove si è parlato moltissimo di lavoro, le politiche attive sono sparite dai radar. Si è preferito parlare di trasferimenti economici nelle tasche dei cittadini-elettori perdendo completamente di vista ciò che, invece, è drammaticamente mancato in questi anni: un efficace sistema di servizi sul territorio, capace di prendere per mano i disoccupati e accompagnarli verso un percorso, anche graduale, di riconquista del lavoro.
Solo adesso, con la prospettiva di dover tradurre in concreta azione di governo la proposta del reddito di cittadinanza, è balzato all’attenzione del dibattito pubblico il tema
d La proposta Il reddito di cittadinanza è l’occasione per avviare una riflessione sulle politiche attive
dei servizi per l’impiego. Come ha sottolineato Maurizio Ferrera sul Corriere, potrebbe essere una buona occasione per avviare una «pacata riflessione post-elettorale sulla sfida lavoro-povertà», provare a concordare in Parlamento un’agenda di massima su questo fronte, immaginare una strada per potenziare i servizi per l’impiego, che lo stesso movimento Cinque Stelle vede come conditio sine qua non per il reddito di cittadinanza. E, forse, potrebbe anche essere l’occasione per spostare il dibattito sul lavoro da un approccio prettamente ideologico — si pensi alla rinnovata disputa sull’articolo 18 — a uno più pragmatico, incentrato appunto sui servizi, evitando l’errore di circoscrivere la questione al mero ambito della sostenibilità finanziaria. Per- ché se è chiaro che — per reggere al confronto con gli altri Paesi europei — servono molte più risorse per le politiche attive del lavoro, non è altrettanto chiaro che le risorse devono essere prioritariamente indirizzate ai servizi. E tuttavia, per costruire un sistema che abbia possibilità di successo, è necessario sciogliere due nodi gordiani.
Il primo riguarda la governance. L’esito del referendum del 5 dicembre 2016 ha escluso una centralizzazione nella gestione dei centri per l’impiego. Permane quindi un sistema ricondotto alla competenza regionale, ancora assai frammentato e disomogeneo. Salvo alcune lodevoli eccezioni, il decentramento non ha prodotto una storia di successo nella gestione dei centri per l’impiego. Il loro riordino non
d L’agenzia L’anpal andrebbe rilanciata dotandola di professionalità e finanziamenti adeguati
potrà prescindere dall’individuazione di un percorso che permetta di superare le esistenti forti divaricazioni fra i diversi territori, anche attraverso una maggiore responsabilizzazione degli operatori privati. Per fare questo ci vuole un forte coordinamento, facendo tesoro delle esperienze migliori per garantire in tutto il Paese servizi omogenei all’altezza delle crescenti richieste di aiuto da parte dei cittadini. Penso a un prototipo di centro per l’impiego riconoscibile su tutto il territorio e in grado di fornire ovunque gli stessi servizi, come avviene ad esempio per gli sportelli delle Poste. Il punto di forza di sistemi efficaci come quello tedesco della Bundesagentur für arbeit, quello francese del Pôle emploi o quello inglese del Job Center sta proprio nella stan- dardizzazione del modello dei servizi per l’impiego, dalle strutture centrali fino agli sportelli di prossimità con gli utenti. Il luogo di nascita o di residenza del cittadino non può essere un fattore di discriminazione nella fruizione dei servizi. Vanno garantiti pari diritti a tutti i cittadini su tutto il territorio. Per raggiungere questo risultato è necessario una più convinta cooperazione tra Stato e Regioni.
L’altro nodo è rappresentato dalla burocratizzazione delle politiche attive, a cominciare dal livello nazionale. Si deve avere il coraggio di riconoscere che i problemi non sono dipesi soltanto dalla bocciatura referendaria, ma derivano anche dalle difficoltà legate alla architettura dell’anpal, la Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. La procedura di formazione della Agenzia, condizionata dal vincolo del costo zero, si è risolta in un’operazione di ingegneria burocratica, frutto dello spostamento di pezzi di Amministrazione pubblica, frustrando così la valorizzazione della sua missione specifica e minandone l’efficienza organizzativa. Solo liberando l’anpal dai vecchi apparati burocratici, aprendola alle professionalità e competenze davvero necessarie e dotandola di adeguate risorse finanziare si potrà creare anche in Italia una agenzia comparabile alle omologhe istituzioni europee, in grado di governare la rete delle politiche attive in un mercato del lavoro sempre più vasto. E si potrebbe finalmente porre termine alla fase ormai storicamente superata della gestione degli ammortizzatori in capo all’istituto di previdenza sociale, che aveva la sua ragion d’essere nello statuto novecentesco dell’accompagnamento morbido alla pensione. È tempo che ogni euro speso a sostegno del reddito abbia come obiettivo un nuovo lavoro.