Corriere della Sera

Islamici, ma diversi L’enigma dei sufi

Fedi Lo studio di Leccese (Jouvence)

- di Viviana Mazza

Il sufismo emerge a volte nelle cronache estere. Lo scorso novembre jihadisti sunniti uccisero oltre 300 persone in una moschea sufi nella penisola del Sinai, uno dei peggiori attacchi nella storia moderna dell’egitto. Nel febbraio di quest’anno, invece, si sono scontrati con le autorità nell’iran sciita i dervisci gonabadi (da Gonabad, località nel nord-est del Paese). Nel saggio Sufi Network. Le confratern­ite islamiche tra globalizza­zione e tradizione (prefazione di Alberto Ventura, Jouvence, pp. 194, 18), Francesco Alfonso Leccese, docente di Cultura e Società dei Paesi di Lingua araba all’università degli Studi internazio­nali di Roma (Unint), offre un approfondi­mento basato su ricerche sul campo sulla storia del sufismo nei Paesi musulmani, dove spesso — scrive — «si trova tra l’incudine dell’islamismo radicale di matrice wahhabita e il martello dello Stato che ne ostacola le attività».

Leccese difende la natura prettament­e islamica del sufismo, spiegando che nasce da un impulso presente nel Corano e nell’insegnamen­to del Profeta, secondo il quale il rapporto con il maestro è considerat­o il metodo più elevato di trasmissio­ne del sapere (rispetto alla conoscenza di un testo senza guida). Ciò porta al rifiuto di un’interpreta­zione rigida, puramente letterale del Corano. Il maestro è dunque percepito come «il simbolo vivente del Profeta stesso», una venerazion­e spesso interpreta­ta come forma di idolatria dai detrattori del sufismo.

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