Dalla casa-famiglia alla libertà E la vita reale diventa una sfida
Le difficoltà che affronta un diciottenne una volta fuori dalla comunità
Manuel è la storia di un’educazione alla vita che diventa qualcosa cui il protagonista non era preparato: un’educazione alla responsabilità. È una storia semplice, come semplice (e insieme complicatissima) è la vita, quella che il protagonista deve imparare ad affrontare quando, diciottenne, lascia la casa-famiglia dove è vissuto fino ad allora. E che il film di Dario Albertini (un esordiente su cui vale la pena di scommettere) ci racconta con la medesima complessa semplicità.
Formatosi nel cinema nonfiction, Albertini ha scoperto così la «Repubblica dei ragazzi», un’organizzazione fondata nel 1945 da due sacerdoti che da allora accoglie giovani disagiati e su cui ha girato un film documentario. Da cui era rimasta esclusa una parte importante: l’incontro con la vita reale che avviene — inesorabilmente — quando i giovani devono lasciare quella struttura. Come appunto è il caso di Manuel (l’ottimo Andrea Lattanzi) che scopriamo nel film il giorno prima della sua uscita. Lo seguiamo mentre segue per l’ultima volta le regola della vita in comune, mentre lava per l’ultima volta i piatti, mentre libera la stanzetta ma anche mentre cerca di convincere un’assistente a fargli salutare l’amica, in isolamento perché si è tagliata i polsi. Brevissima scena girata da lontano, così da non capire quello che i due si dicono e che però aiuta a intuire qual è l’animo del protagonista.
Quasi contemporaneamente scopriamo quello che lo aspetta fuori dalla casa d’accoglienza: una madre in carno, cere da 5 anni (Francesca Antonelli) che spera di poter scontare i 2 che le mancano agli arresti domiciliari, sotto la tutela del figlio. E così l’esperienza della libertà diventa per Manuel la prima sfida che deve affrontare. E non delle minori. Che però la sceneggiatura (del regista e di Simone Ranucci) e la messa in scena cercano di raccontare nel modo meno oppressivo possibile, inanellando una serie di situazioni che possono sembrare delle deviazioni dalla «retta via» del racconto, ma che sono piuttosto la conseguenza della curiosità di Manuel per la vita e della sua casualità.
Tutto l’episodio con Franki- il vecchio vagabondo che aiuta a mettere in moto il furgoncino, e il conseguente incontro con Francesca (Giulia Elettra Gorietti), l’aspirante attrice che lavora alla Caritas, non servono a far andare avanti la storia, non lasciano una qualche traccia nel percorso del protagonista, ma aiutano a capire meglio la meraviglia e insieme la disponibilità con cui Manuel è pronto ad andare incontro alle cose. Così da rimanerne «stregato», come quando ascolta rapito la ragazza recitargli il pezzo (dai Quattrocento colpi di Truffaut) che deve portare a un provino e che per Manuel diventa una specie di magico incontro con l’idea dell’amore. Quell’amore che poi troverà la sua più squallida «replica» nell’incontro con la prostituta cui è trascinato controvoglia. Ecco la «complessa semplicità» di cui parlavo sopra. È quella che si dispiega e prende forma insieme allo svolgimento del film, davanti agli occhi di un ragazzo che si trova a dover affrontare sempre nuovi «esami», da quelli veri dell’avvocato (Luciano Miele) che lo istruisce e dell’assistente sociale (Monica Carpanese) che deve vagliare la sua idoneità a farsi carico della madre, fino a quelli indiretti ma più insidiosi dell’amico (Giulio Beranek) che gli prospetta una vita facile di soldi e donne se solo lo seguisse in Croazia o ancora quelli di Elpidio (Alessandro Di Carlo), un ex ospite della «Repubblica» con la sua doppia vita matrimoniale.
Tutti incontri e situazioni che Albertini filma senza mai cedere alle facili tentazioni di un’autorialità di facciata: la mobilità della macchina da presa sa fermarsi prima di diventare vezzo, l’ambientazione popolar-romanesca (il film è girato a Civitavecchia) non cade mai nel facile sociologismo e a emergere è la figura di un diciottenne che deve scegliere se farsi carico delle domande che gli pone la vita (e la madre) oppure inseguire il sogno di un futuro diverso e meno soffocante. Come invece è il colletto della camicia che indossa per l’udienza in tribunale.
La storia si svolge a Civitavecchia ma l’ambientazione popolarromanesca non cade mai nel facile sociologismo