Prima nuove regole
Era chiaro fin dall’esito del voto che sarebbe stato molto complicato costruire un governo politico: troppo eterogenei i tre blocchi che si sono affrontati nelle urne per riuscire poi a metterne insieme due in Parlamento.
Il fallimento di ogni combinazione utile a formare una maggioranza era e resta legato a due diversi ordini di problemi. Il primo è che gli attuali partiti sono figli del maggioritario, e non è facile cambiarne repentinamente il dna per adattarli a un modello proporzionale. Il secondo è un problema di sistema. Dal 1948 al 2018 l’italia ha vissuto dentro una competizione bipolare: per cinquanta anni la Dc e i suoi alleati si sono contrapposti alle opposizioni di sinistra e destra; mentre negli ultimi venticinque anni si sono sfidati centrodestra e centrosinistra.
Stavolta, e per la prima volta, la novità dei tre blocchi ha costretto tutti a un cambio radicale rispetto ai vecchi riti democratici: i partiti — così come le istituzioni — hanno dovuto immaginare un diverso perimetro politico, delineare i confini di possibili alleanze tra forze che si consideravano (e si considerano) alternative. Non è facile mettere a punto una nuova Yalta in poco tempo e con una classe dirigente che è parsa impreparata ad affrontare una svolta epocale. Ed era scontato che i tentativi di aggirare il problema andassero a vuoto.
Per esempio, i Cinque Stelle hanno provato a dividere il centrodestra, immaginando che bastasse separare Salvini da Berlusconi, senza tener presente che quella alleanza ha radici profonde, è un intreccio di interessi e di storie politiche comuni che si diramano sul territorio nazionale. Anche l’operazione avviata con il Pd è partita dallo stesso, errato presupposto: e quei continui richiami di M5S al «contratto di governo» da non confondere con una «alleanza di governo» testimoniavano la volontà di evitare una
Interessi convergenti
I leader politici dovrebbero capire che, in questo caso, l’interesse nazionale può coincidere con quello dei loro partiti
contaminazione politica, erano un alibi per non intaccare la propria «diversità».
Nonostante questo sfrenato tatticismo, che è stato ridotto in modo semplicistico a una questione di premiership, il nodo non è stato sciolto. Ed è velleitario immaginare — come fanno grillini e leghisti — che il ritorno immediato alle urne sia la soluzione. Semmai l’attuale stallo potrebbe trasformarsi in un pericoloso baco di sistema, perché se in autunno dalle urne — com’è assai probabile — si riproponesse un risultato simile a quello di marzo, il rischio sarebbe di scaricare l’impasse sul Paese: senza un governo, con il pericolo dell’esercizio provvisorio e l’obbligo di assolvere alle clausole di salvaguardia firmate con l’europa, i cittadini e le imprese dovrebbero pagare il conto con l’aumento dell’iva.
In questo modo Cinque Stelle e Lega si assumerebbero una grave responsabilità, contraddicendo peraltro il richiamo al senso di responsabilità che hanno ripetuto durante le consultazioni al Quirinale. È vero che le tensioni tra i partiti si sono acuite, e che è più complicato trovare adesso un compromesso. Ma proprio in questo contesto servirebbe uno sforzo per affrontare la realtà delle cose, lasciare che un governo rediga una legge di Stabilità per tener fede agli impegni del Paese con l’unione europea e utilizzare questo lasso di tempo per varare in Parlamento le nuove regole di ingaggio in vista della prossima sfida elettorale. Peraltro Di Maio e Salvini avrebbero i numeri nelle Camere per indirizzare la trattativa e anche per staccare la spina in qualsiasi momento: è la loro golden share, una garanzia rispetto al paventato timore di giochi di Palazzo.
Se è vero che il destino della legislatura appare già segnato, la speranza è che il suo finale non sia scontato come il suo inizio. E i leader politici dovrebbero capire che, in questo caso, l’interesse nazionale può coincidere con quello dei loro partiti.