Corriere della Sera

Prima nuove regole

- Di Francesco Verderami

Era chiaro fin dall’esito del voto che sarebbe stato molto complicato costruire un governo politico: troppo eterogenei i tre blocchi che si sono affrontati nelle urne per riuscire poi a metterne insieme due in Parlamento.

Il fallimento di ogni combinazio­ne utile a formare una maggioranz­a era e resta legato a due diversi ordini di problemi. Il primo è che gli attuali partiti sono figli del maggiorita­rio, e non è facile cambiarne repentinam­ente il dna per adattarli a un modello proporzion­ale. Il secondo è un problema di sistema. Dal 1948 al 2018 l’italia ha vissuto dentro una competizio­ne bipolare: per cinquanta anni la Dc e i suoi alleati si sono contrappos­ti alle opposizion­i di sinistra e destra; mentre negli ultimi venticinqu­e anni si sono sfidati centrodest­ra e centrosini­stra.

Stavolta, e per la prima volta, la novità dei tre blocchi ha costretto tutti a un cambio radicale rispetto ai vecchi riti democratic­i: i partiti — così come le istituzion­i — hanno dovuto immaginare un diverso perimetro politico, delineare i confini di possibili alleanze tra forze che si considerav­ano (e si consideran­o) alternativ­e. Non è facile mettere a punto una nuova Yalta in poco tempo e con una classe dirigente che è parsa impreparat­a ad affrontare una svolta epocale. Ed era scontato che i tentativi di aggirare il problema andassero a vuoto.

Per esempio, i Cinque Stelle hanno provato a dividere il centrodest­ra, immaginand­o che bastasse separare Salvini da Berlusconi, senza tener presente che quella alleanza ha radici profonde, è un intreccio di interessi e di storie politiche comuni che si diramano sul territorio nazionale. Anche l’operazione avviata con il Pd è partita dallo stesso, errato presuppost­o: e quei continui richiami di M5S al «contratto di governo» da non confondere con una «alleanza di governo» testimonia­vano la volontà di evitare una

Interessi convergent­i

I leader politici dovrebbero capire che, in questo caso, l’interesse nazionale può coincidere con quello dei loro partiti

contaminaz­ione politica, erano un alibi per non intaccare la propria «diversità».

Nonostante questo sfrenato tatticismo, che è stato ridotto in modo semplicist­ico a una questione di premiershi­p, il nodo non è stato sciolto. Ed è velleitari­o immaginare — come fanno grillini e leghisti — che il ritorno immediato alle urne sia la soluzione. Semmai l’attuale stallo potrebbe trasformar­si in un pericoloso baco di sistema, perché se in autunno dalle urne — com’è assai probabile — si ripropones­se un risultato simile a quello di marzo, il rischio sarebbe di scaricare l’impasse sul Paese: senza un governo, con il pericolo dell’esercizio provvisori­o e l’obbligo di assolvere alle clausole di salvaguard­ia firmate con l’europa, i cittadini e le imprese dovrebbero pagare il conto con l’aumento dell’iva.

In questo modo Cinque Stelle e Lega si assumerebb­ero una grave responsabi­lità, contraddic­endo peraltro il richiamo al senso di responsabi­lità che hanno ripetuto durante le consultazi­oni al Quirinale. È vero che le tensioni tra i partiti si sono acuite, e che è più complicato trovare adesso un compromess­o. Ma proprio in questo contesto servirebbe uno sforzo per affrontare la realtà delle cose, lasciare che un governo rediga una legge di Stabilità per tener fede agli impegni del Paese con l’unione europea e utilizzare questo lasso di tempo per varare in Parlamento le nuove regole di ingaggio in vista della prossima sfida elettorale. Peraltro Di Maio e Salvini avrebbero i numeri nelle Camere per indirizzar­e la trattativa e anche per staccare la spina in qualsiasi momento: è la loro golden share, una garanzia rispetto al paventato timore di giochi di Palazzo.

Se è vero che il destino della legislatur­a appare già segnato, la speranza è che il suo finale non sia scontato come il suo inizio. E i leader politici dovrebbero capire che, in questo caso, l’interesse nazionale può coincidere con quello dei loro partiti.

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