Quel pressing su Trump
GERUSALEMME Il guizzo causato dalle esplosioni sui sismografi che tracciano le scosse di terremoto nel Mediterraneo orientale — 2,6 della scala Richter — è stato inferiore al balzo verso il basso della borsa di Tel Aviv. Gli operatori abituati a scommettere sull’andamento delle azioni non vogliono prendersi rischi.
Il mercato non è crollato al mattino, a poche ore dalle prime notizie sull’attacco missilistico dall’altra parte del confine. Ci è voluto l’annuncio del premier: discorso alla nazione in prima serata, da un bunker nel palazzo della Kiriya, il Pentagono israeliano. Pochi dubbi da subito sull’argomento: gli ayatollah e il loro obiettivo strategico di sviluppare armi nucleari, un progetto che — sostengono i servizi segreti israeliani e proclama Netanyahu in mondovisione — sarebbe stato solo accantonato dopo l’accordo firmato con le potenze internazionali.
Questa volta pronto all’azzardo sembra il primo ministro che più di tutti nella storia di Israele (ha totalizzato 146 mesi da capo del governo, dodici in meno del padre fondatore David Ben-gurion) ha provato ad evitare di essere coinvolto in un conflitto.
Per carattere, come scrive l’analista di cose militari Yossi Melman: «E’ sospettoso, cauto, timoroso». E per strategia, come gli riconosce lo stesso Melman: «Ascolta i generali e gli ufficiali dell’intelligence, quasi sempre segue le loro raccomandazioni». Che in queste settimane coincidono con la volontà di Benjamin Netanyahu: impedire agli iraniani di stabilirsi con basi e avamposti militari in Siria.
Così le mosse di Bibi, com’è soprannominato il primo ministro, appaiono meno guardinghe. Il leader starebbe sfruttando — osservano gli esperti israeliani — quel paio di settimane che restano da qui al 12 maggio, quando Donald Trump dovrà decidere se cancellare o mantenere in vigore l’intesa con l’iran. «La scommessa consiste — scrive Amos Harel sul quotidiano Haaretz — nel presumere che gli iraniani non risponderanno in tempi brevi agli attacchi israeliani per non causare le rappresaglie americane sul piano diplomatico o perfino militare. Il regime è anche preoccupato dalle possibili proteste interne causate dalla crisi economica. La conclusione: Israele può permettersi di continuare a colpire. Questi calcoli possono finire fuori controllo, se il caos in Siria dovesse peggiorare».
Anche perché il 12 non è l’unico dei «giorni esplosivi di maggio», come li definiscono i ricercatori dell’institute for National Security Studies all’università di Tel Aviv: il 6 si svolgono le elezioni parlamentari in Libano e dopo il voto Hezbollah potrebbe decidere, su ordine iraniano, che la tregua apparente con Israele è finita; il 14 gli Usa inaugurano l’ambasciata voluta a Gerusalemme da Trump e osteggiata dai palestinesi; Hamas promette di far marciare ventiquattro ore dopo migliaia di persone contro la barriera che circonda Gaza, il culmine delle cinque settimane di proteste nella Striscia.
Attorno a una di queste date — temono gli analisti e si allerta l’esercito — potrebbe scoppiare un conflitto su più fronti. Quanto diretto e aperto dipenderebbe anche dalle decisioni di Netanyahu: «In guerra — scrive Anshel Pfeffer nella biografia dal titolo Bibi — resta influenzato dal servizio militare prestato nel Sayeret Matkal e continua a preferire l’uso di unità delle forze speciali rispetto ai battaglioni più grandi e complessi da muovere».
La scommessa «E’ che l’iran non risponderà in tempi brevi per non causare rappresaglie Usa»