«Lavoro per l’esecutivo non per le urne» Ma Salvini non vuole sostegni «mercenari»
Per Matteo Salvini è l’ora del dilemma. Governo o elezioni? Dare una chance ancora alla formazione del governo oppure puntare a tutta velocità — tutta quella possibile — sul ritorno alle urne mentre il vento del consenso gonfia le vele alla Lega?
A giudicare dal primo — e unico — atto pubblico nella giornata del segretario, la strada sembrerebbe quella del governo. Quel due di picche, la carta che non conta, piantato su una spiaggia del Gargano e indirizzato a Di Maio, però, non aiuta a comprendere. Anche se l’hashtag è quello di sempre, #andiamoagovernare. E spiega: «Io lavoro per il governo non per le elezioni».
Di certo, racconta chi gli ha parlato, Salvini è molto soddisfatto dell’aver preso tempo fino a dopo le elezioni, lo «scollinamento delle Regionali». La conquista del Molise e quella, con numeri clamorosi, del Friuli Venezia Giulia è «stata una scommessa vincente che ha dato alla Lega il peso che noi sentivamo avesse». E il commento a latere, riferito dai piani alti della Lega, è che «se anche Renzi non avesse sbattuto la porta in faccia a Di Maio, l’ipotesi di un governo 5 Stelle-pd sarebbe stata seppellita dagli elettori».
Il che, però, non aiuta a risolvere il dilemma. Certo, il segretario leghista capisce che oggi il trovare voti in Parlamento, come Silvio Berlusconi sostiene dal 5 giorno dopo le Politiche, è impresa assai meno impervia che prima. Certo, sulla carta i voti necessari a una maggioranza restano una cinquantina. Eppure, spiega uno dei collaboratori di Salvini, «con questi risultati e soprattutto il babau di dover tornare davvero alle elezioni una volta fallisse anche l’ultimo tentativo possibile, sarebbe — aggiunge il leghista con ironia esplicita — un potente richiamo alla responsabilità».
Ma c’è il rovescio della medaglia: se anche la caccia al voto riuscisse, quello che ne nascerebbe non sarebbe il governo a cui puntava Salvini, ma «un gruppo raccolto tra mercenari e chissachì». Un esecutivo esposto a defezioni e molto probabilmente senza la forza necessaria per fare, come Salvini ripete a ogni comizio, «quello che serve a questo Paese: lavoro, lavoro, lavoro e un rapporto con l’europa senza cappelli in mano».
Contro il voto, però, gioca anche un ruolo fondamentale l’assetto futuro del centrodestra. Che un salviniano riassume così: «Se tornassimo alle urne avrebbe senso farlo con un listone unico del centrodestra. Questo chiuderebbe la partita con i 5 Stelle. Ma Berlusconi — che non vuole le elezioni — sarebbe disponibile?». Difficile, è la risposta che si danno i leghisti: «Ci vorrebbe molta politica». Anche qui, con qualche ironia. Eppure, l’idea del «listone» continua a ronzare tra i pensieri di Salvini.
Resta il fatto che, se l’ipotesi di andare a caccia di voti in Parlamento non sorride affatto al leader leghista, i suoi giurano che lui senta in ogni caso la responsabilità di farlo: «Le aspettative della gente sono in quella direzione». Mentre la possibilità che nasce nella logica di non far scottare il segretario — e cioè, che l’incarico possa andare a una persona di fiducia di Salvini come il suo vice Giancarlo Giorgetti —, in Lega è considerata «ipotesi soltanto dei giornali». Il tutto, ovviamente, al netto di quanto deciderà il capo dello Stato Sergio Mattarella. In Lega si dice che il presidente abbia «seguito traiettorie istituzionali corrette, ma tradizionali. Che non tengono conto di questa politica fatta da pazzi: tutti stavano ad aspettare la direzione Pd, e Renzi si presenta in televisione e spacca tutto. Uno spettacolo osceno».
A confortare il segretario, un dato. Il fatto che ormai la Lega guidi Lombardia, Veneto e Friuli significa che nella sua nuova veste nazionale sia arrivata dove Umberto Bossi aveva soltanto potuto sognare: è una vivacissima soddisfazione di contorno.
I numeri
Per i leghisti ora è più facile trovare i numeri a Roma ma si temono i «responsabili»