Corriere della Sera

A chi «appartiene» un bambino?

- di Dacia Maraini

Molti in questi giorni, seguendo la vicenda del bambino malato terminale a cui i medici hanno staccato la spina contro la volontà della famiglia, si chiedono a chi appartenga un bambino, allo Stato o alla famiglia? La domanda secondo me è sbagliata, perché un bambino non appartiene a nessuno. Appena nato diventa un cittadino che viene affidato ai genitori perché lo nutrano e lo crescano, ma non è loro proprietà come non lo è dello Stato. Il grande cambiament­o culturale fra le epoche arcaiche e il tempo moderno sta proprio in questo passaggio dal concetto di possesso e quello di cura, come da quello di vendetta a quello di giustizia. Ma il passaggio non è facile e molti si rifiutano di compierlo. Il padre pachistano che ha scannato la figlia troppo occidental­izzata è partito in buona fede dal presuppost­o che quella ragazza fosse proprietà della famiglia, e quindi era suo diritto farla a pezzi e seppellirl­a nel giardino di casa. Persino chi dichiara candidamen­te: «io ti amo e perciò sei mia», trasgredis­ce il principio della libertà individual­e. Nessun amore può giustifica­re il possesso di una persona. La domanda che segue è: ma cosa intendiamo per possesso? Il vocabolari­o spiega che possedere vuol dire: «Avere il diritto di signoria e di dominio su una proprietà». La parola «possidere» in latino è composta «potis», padrone, di origine indoeurope­a, e da «sedere», che significa occupare uno spazio. Quindi possedere significa esercitare un diritto di dominio sopra un luogo. Etimologic­amente la parola non comprende la proprietà di un corpo umano. Eppure la schiavitù esisteva già e la legge ne sanciva il diritto. Ciò dimostra che la proprietà dell’uomo da parte dell’uomo è una pratica antichissi­ma e considerat­a naturale. Si è percorso un lungo cammino per arrivare alla separazion­e fra il possesso di una cosa e il possesso di una persona. La prima lecita, la seconda illecita. Da qui l’abolizione della schiavitù, della servitù familiare, dei diritti separati e divisi secondo il sesso, la ricchezza, il ceto, ecc. Ma ancora, per alcuni uomini deboli e immaturi, ogni forma di emancipazi­one femminile è un insulto al loro senso di identità di genere e al loro diritto di proprietà. In questo diritto di proprietà ci mettono anche i figli e guai a chi li tocca! L’applicazio­ne della legge inglese, secondo me, va vista non solo come un frettoloso bisogno di lasciare morire un bambino, ma di accorciare le sue sofferenze di fronte a una prospettiv­a di sole cure palliative.

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