A chi «appartiene» un bambino?
Molti in questi giorni, seguendo la vicenda del bambino malato terminale a cui i medici hanno staccato la spina contro la volontà della famiglia, si chiedono a chi appartenga un bambino, allo Stato o alla famiglia? La domanda secondo me è sbagliata, perché un bambino non appartiene a nessuno. Appena nato diventa un cittadino che viene affidato ai genitori perché lo nutrano e lo crescano, ma non è loro proprietà come non lo è dello Stato. Il grande cambiamento culturale fra le epoche arcaiche e il tempo moderno sta proprio in questo passaggio dal concetto di possesso e quello di cura, come da quello di vendetta a quello di giustizia. Ma il passaggio non è facile e molti si rifiutano di compierlo. Il padre pachistano che ha scannato la figlia troppo occidentalizzata è partito in buona fede dal presupposto che quella ragazza fosse proprietà della famiglia, e quindi era suo diritto farla a pezzi e seppellirla nel giardino di casa. Persino chi dichiara candidamente: «io ti amo e perciò sei mia», trasgredisce il principio della libertà individuale. Nessun amore può giustificare il possesso di una persona. La domanda che segue è: ma cosa intendiamo per possesso? Il vocabolario spiega che possedere vuol dire: «Avere il diritto di signoria e di dominio su una proprietà». La parola «possidere» in latino è composta «potis», padrone, di origine indoeuropea, e da «sedere», che significa occupare uno spazio. Quindi possedere significa esercitare un diritto di dominio sopra un luogo. Etimologicamente la parola non comprende la proprietà di un corpo umano. Eppure la schiavitù esisteva già e la legge ne sanciva il diritto. Ciò dimostra che la proprietà dell’uomo da parte dell’uomo è una pratica antichissima e considerata naturale. Si è percorso un lungo cammino per arrivare alla separazione fra il possesso di una cosa e il possesso di una persona. La prima lecita, la seconda illecita. Da qui l’abolizione della schiavitù, della servitù familiare, dei diritti separati e divisi secondo il sesso, la ricchezza, il ceto, ecc. Ma ancora, per alcuni uomini deboli e immaturi, ogni forma di emancipazione femminile è un insulto al loro senso di identità di genere e al loro diritto di proprietà. In questo diritto di proprietà ci mettono anche i figli e guai a chi li tocca! L’applicazione della legge inglese, secondo me, va vista non solo come un frettoloso bisogno di lasciare morire un bambino, ma di accorciare le sue sofferenze di fronte a una prospettiva di sole cure palliative.
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