NELLA ROMA DEI VELENI
Un saggio di Andrea Carandini (Laterza) ricostruisce le vicende complesse della dinastia Giulio-claudia, nelle quali spicca una figura femminile del tutto priva di scrupoli. Una stagione oscura di macchinazioni e di efferati delitti LA VITA DI AGRIPPINA,
Il nonno era Vipsanio Agrippa, braccio destro di Ottaviano (futuro Augusto, imperatore tra il 27 a.c. e il 14 d.c.), del quale vale la pena di ricordare che fu il grande artefice della vittoriosa battaglia navale di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra (31 a.c.). Sua madre — anche lei si chiamava Agrippina — figlia di Vipsanio Agrippa, era nipote di Augusto ed ebbe nove figli, di cui però ne sopravvissero solo sei. Suo padre, Germanico, era nipote di Tiberio — imperatore tra il 14 e il 37, successore di Augusto (che lo aveva adottato) — e morì ad Antiochia avvelenato, probabilmente su istigazione proprio di Tiberio. Suo fratello Caligola (Gaio), successore di Tiberio, fu imperatore tra il 37 e il 41. Suo marito (ma anche zio), Claudio, succedette a Caligola e fu imperatore tra il 41 e il 54. Suo figlio, Nerone, successore di Claudio, fu imperatore tra il 54 e il 68. Un’incredibile serie di parentele ai vertici della Roma d’inizio del primo millennio, rendono la vita di Agrippina (detta «minore» per non confonderla con l’altra Agrippina di cui si è detto, sua madre) davvero unica.
Quasi una sfida per Andrea Carandini che ha deciso di far confluire anni e anni di studi e ricerche di archeologia e storia in uno straordinario libro a lei dedicato, Io, Agrippina. Sorella, moglie, madre di imperatori, che sta per uscire da Laterza. Un saggio impreziosito da illustrazioni e tavole eccellentemente curate da Maria Cristina Capanna e Francesco De Stefano. Il modello è, fin dal titolo, Io, Claudio di Robert Graves pubblicato nel 1934 e tradotto in Italia, in tempi recenti, per le edizioni Corbaccio. Ma il racconto di Carandini si differenzia in più parti da quello ben più romanzato di Graves. Ovviamente un altro punto di riferimento sono le Memorie di Agrippina di Pierre Grimal, un testo però meno ricco e affascinante di quello di Carandini. Fonte di ispirazione, più alla lontana, sono anche le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
Quando nel 14 muore Augusto e gli succede Tiberio, l’esercito in Germania si rivolta a causa dei troppi anni di servizio (oltre 16), del «soldo inadeguato», e della crudeltà dei centurioni. Tiberio manda Germanico a sedare la ribellione e a sorpresa i rivoltosi lo acclamano, proponendogli di prendere il posto dell’imperatore. Ma lui non aspirava all’impero, ottenuto «tramite eversione», per cui resiste alla pressione della truppa. Si può probabilmente dire che la rivolta si spegne proprio perché Germanico non aderisce ad essa. Dopodiché il Tiberio messo in luce da Carandini loda Germanico in Senato per aver rifiutato il potere offertogli dalle truppe. Parole false: nei fatti Tiberio ha sentimenti ambigui nei confronti di Germanico, che ha dato prova di essere «padrone degli eserciti». Sospetta, Tiberio, anche della moglie di Germanico, Agrippina (madre della protagonista del libro di Carandini) esplicitamente ambiziosa.
Il Tiberio di Carandini fu un «uomo spregevole». Ma interessante: «dissimulava ciò che voleva e non desiderava alcunché di quello che palesava»; «negava quello che bramava e si interessava a quanto detestava»; «sfogava la collera per questioni che non destavano la sua ira e dava segni di equilibrio quando era maggiormente sdegnato». L’imperatore altresì riteneva di non dover rivelare i propri pensieri, «ché il conoscerli avrebbe procurato danni all’impero»; si adirava se qualcuno mostrava di aver intuito una sua idea e lo mandava a morte. Manifestarsi, per lui, «era come aprire il petto davanti al nemico». E il nemico erano adesso in primo luogo la stirpe dei Giuli, gli appartenenti alla famiglia di Agrippina. «Colpa» — se così si può dire — del prestigio di Germanico che cresceva ogni giorno di più. Anche dopo la morte. Era riuscito a vendicare l’umiliante sconfitta di Varo a Teutoburgo, sconfiggendo gli uomini di Arminio. Nel 16 Germanico si era mosso ancora una volta all’attacco dei Germani e al culmine dello scontro si era tolto dal capo il casco, così da farsi riconoscere «per incitare con più efficacia i suoi a completare il massacro». Un gesto che aveva un celeberrimo precedente, lo aveva compiuto tre secoli e mezzo prima Alessandro Magno. E nel 17 la tensione tra i due raggiunse l’apice. Tiberio — consigliato all’epoca dal pretorio Seiano (che aveva irretito l’imperatore «fino a renderlo fidente soltanto in lui» talché «era come se avesse colonizzato la sua mente» e alla fine pagò con la vita l’eccesso di influenza) — voleva impedire in ogni modo che venisse attribuita a Germanico la conquista definitiva della Germania. Così finse che l’impero fosse in pericolo e lo mandò in Oriente. Per poi farlo avvelenare, o per lasciare che venisse avvelenato ad Antiochia. La vedova di Germanico, Agrippina (madre), tornò a Brindisi con le ceneri del marito, accompagnata da Caligola che aveva sette anni. Fu accolta, Agrippina, da «una folla sdegnata che riempiva le spiagge e le case»; lungo la via che l’avrebbe riportata a Roma c’erano consoli, senatori, popolo accorso anche dai paesi vicini; ma nessuna traccia di Tiberio.
ARoma, come segno di dolore per la perdita di Germanico, «la plebe tirava pietre contro i templi, rovesciava gli altari, gettava i Lari in strada ed esponeva neonati, seguendo il cordoglio di barbari, re clienti e perfino del re dei Parti che si è astenuto per qualche tempo da cacce e festini». Nulla ferì Tiberio, secondo l’autore, «più dell’entusiasmo del popolo verso Agrippina». La quale, inebriata da questi tributi di affetto, fece l’errore di iniziare a sparlare di Tiberio: l’imperatore si disfò di lei esiliandola a Ventotene (Pandataria), dove nel 33 morì di stenti.
Ma il destino era in agguato e la vendicò: il 16 marzo del 37, lo stesso Tiberio fu ucciso a Miseno nella villa che era stata di Lucullo. Uccisione descritta minuziosamente da Carandini: il principe all’improvviso cadde in letargo e un suo uomo gli sfilò l’anello perché Caligola lo potesse infilare all’istante; nello stesso istante Tiberio riprese a respirare e, toccandosi la mano, balbettò: «L’anello…». «Troppo tardi», disse Caligola e a un suo cenno il prefetto Macrone ordinò «Fuori tutti!». Poi, rivolto alle guardie, aggiunse: «Non ce la fa, aiutiamolo…». E fu «un accalcarsi, un premere di mantelli, coperte e guanciali finché Tiberio morì soffocato». Aveva vissuto poco più di 67 anni ed era stato sul trono 22 anni e mezzo.
Due giorni dopo, il 18 marzo, Caligola — che precedentemente era stato costretto ad assi-