Nelle aspre lotte tra liberi Comuni Montanelli respirava aria di casa
Dopodomani in edicola con il quotidiano il testo sul Medioevo scritto insieme a Roberto Gervaso Racconta nei dettagli le contese toscane tra Firenze e Siena, Pisa e Lucca A Federico II di Svevia e Matilde di Canossa dedica ritratti molto vivaci
«L’avvocato Maggioni (…) non sente la minima affinità coi liberi Comuni. Uomo medio, italiano medio, sopravvive anzi in lui, dagli anni di scuola, uno spasimo di acutissima noia, di disperato rigetto, di fronte al capitolo del Compendio di Storia intitolato I Comuni. Grigie, fitte, aride pagine, peggiori, forse, perfino del capitolo intitolato Gli Arabi».
Peccato che l’avvocato Maggioni, il protagonista del libro Il Palio della Contrade Morte
di Fruttero & Lucentini, abbia avuto un impatto così negativo con il periodo comunale. Se avesse dato un’occhiata a L’italia dei Comuni di Indro Montanelli e Roberto Gervaso (avrebbe potuto farlo, il romanzo è del 1983, la prima edizione del volume della Storia d’italia in edicola oggi è del 1963), c’è da scommettere che avrebbe cambiato idea.
Il libro è quanto più lontano si possa pensare dalla riedizione di un manuale di storia destinato agli studenti. Prima di tutto perché l’argomento resta comunque uno straordinario periodo impastato di santità e crudeltà, di crociate e di cattedrali, di battaglie intorno al Carroccio, di estasi mistiche e bassi calcoli, di politica e cultura. Poi perché è opera di un giornalista. Di un giornalista con i fiocchi, bisogna aggiungere. E se c’è un vantaggio che un giornalista ha rispetto allo storico di professione, è quello di essere abituato, per mestiere, a trovare ed evidenziare il dettaglio e la caratteristica che descrivono una situazione o un personaggio. E Montanelli in questo era un maestro. Chi scrive ebbe occasione di incontrarlo a una festa di Natale del «Corriere della Sera» nel 1999, due anni prima della sua morte. E alla domanda «Come sta?», rispose: «La vita è l‘unica cosa che più la svuoti e più diventa pesa». In due parole, una definizione della vecchiaia che resta alquanto insuperabile.
Grazie a questa dote montanelliana, i personaggi che popolarono la storia italiana ed europea tra il 1.000 e il 1.250 (i limiti temporali dell’opera) prendono corpo sotto i nostri occhi con poche, rapide pennellate. E restano lì, vivi, a raccontarci le loro vicende.
Qualche esempio? Matilde di Canossa, la terribile contessa devota al papato il cui castello vide nel 1077 l’umiliazione proverbiale dell’imperatore Enrico IV di fronte al pontefice Gregorio VII durante la «lotta per le investiture» (si trattava di decidere chi tra papato e impero avesse il diritto di nominare i vescovi), viene descritta così: «Una donna di carne e di passioni violente, che mise al servizio della Chiesa una smania di dedizione delusa dal matrimonio sbagliato. (…) Umilissima di fronte a Dio e a coloro ch’essa considerava i suoi legittimi rappresentanti in terra, era di uno smisurato orgoglio di fronte agli uomini. (…) In chiesa dove andava ogni mattina all’alba per confessarsi, si presentava vestita come una popolana penitente. Ma quando montava a cavallo, infilava speroni d’oro».
Di Gregorio VII, uno dei grandi Papi di un periodo che vide la Chiesa di Roma capace di incredibili bassezze e di slanci mistici senza eguali, Montanelli scrive: «Spirando, si dice che mormorasse: “Muoio in esilio perché amai la giustizia e odiai l’iniquità”. Più che la giustizia, aveva amato la Chiesa. L’aveva amata fino all’iniquità».
E di Federico II, forse il più grande dei sacri romani imperatori, Indro sottolinea: «Forse aveva ormai capito che i Comuni contro cui lottava erano sì, delle forze eversive, ma le uniche vive del suo tempo; e perciò erano destinate a trionfare. Con lui scomparve di certo il protagonista più inquieto e più moderno del Medio Evo. Nietzsche lo ha paragonato a Leonardo da Vinci. (…) Eppure nulla di ciò che aveva costruito era destinato a sopravvivergli».
Ma c’è forse un altro motivo per cui questo libro è tanto gradevole. Montanelli era toscano. E nessuna regione dell’italia, che pure è nazione di particolarismi, è tuttora tanto attaccata ai propri municipi quanto la Toscana. Non è un caso che quando deve scegliere una situazione paradigmatica per spiegare la nascita di un libero Comune cittadino, Montanelli parta dal Comitato tra Fiesole e Firenze e descriva via via i rapporti delle contrade di Firenze tra loro, le lotte della città gigliata con il suo Margravio e i suoi rapporti con il vescovo. E quando vuol raccontare gli scontri tra le città, di nuovo torni in Toscana, che «rifulse nel reciproco scannamento. I senesi mossero in forze all’attacco del contado fiorentino e vi furono sterminati. Le carceri di Pisa rigurgitavano di prigionieri lucchesi e quelle di Lucca di prigionieri pisani (…) “Miseranda e infelice Tuscia dove le cose umane e quelle divine si confondono nel più completo disordine!” scrive l’abate Pietro di Cluny».
Insomma, è un libro in cui sembra che Montanelli si sia trovato un po’ a casa sua. E che ci sia stato bene.
Giudizi severi
«In realtà Gregorio VII non amava la giustizia, ma la Chiesa. E la difese fino all’iniquità»