«Così rivivo a teatro il suicidio di mio figlio»
Evelina Nazzari: «Aveva 26 anni come l’attore in scena Ragazzo problematico, tentai di salvarlo ma fu inutile»
ROMA Montecarlo, anni Cinquanta: Claire, una vedova ancora giovane, nota nella sala da gioco le mani frenetiche e disperate di un uomo, poco più che un ragazzo, che punta tutto e tutto perde alla roulette. Quella notte lo salva dal suicidio, cerca con ogni mezzo di convincerlo a rinunciare al demone del gioco e poi, suo malgrado, se ne innamora. Ma Claire, nonostante i suoi sforzi, non riuscirà a salvarlo anche in seguito.
Ventiquattro ore della vita di una donna si intitola lo spettacolo tratto da una novella di Stefan Zweig, in scena al Teatro di Documenti dall’8 maggio, regia di Rosario Tronnolone. Protagonista Evelina Nazzari, con il giovane Arcangelo Zagaria nel ruolo di Mateusz. «Una vicenda dolorosa, che ha molto a che fare con la mia storia privata — esordisce l’attrice —. Anche io, anni fa, tentai di salvare un ragazzo problematico dal suicidio, senza riuscirvi: si chiamava Leonardo, aveva 26 anni, era mio figlio».
Possono bastare ventiquattro Con il padre Nel 2008 Evelina ha pubblicato il libro «Amedeo Buffa in arte Nazzari». Sul palcoscenico ha interpretato, fra l’altro, commedie di Goldoni, Coward e Ibsen ore per sconvolgere una vita e decidere di mettere a rischio tutto. «Recitare questo testo è, per me, un fatto catartico, certo non è una banale esorcizzazione del dolore, quello rimane tutto, è perenne, ma ci sono tanti modi per affrontarlo e io, impersonando Claire, cerco di buttarlo fuori da me: una sorta di terapia che ho attuato anche in passato pubblicando Dopo la fine, uno sfogo dell’anima. Nella novella dello scrittore austriaco — continua Evelina — ho ritrovato momenti della mia vita. Persino alcune frasi mi risuonano dentro: le avrei potute dire, e forse le ho dette. Questa è la magia concessa a noi attori: poter rivivere in scena sentimenti immaginati da altri, mettendoci la propria esperienza personale».
Altra coincidenza: l’attore che impersona il ragazzo ha 26 anni. «La cosa mi ha impressionato profondamente. Da quando è morto Leonardo, ho sempre pensato che nessuno si è mai preso la briga di inventare un termine per definire un genitore che perde un figlio: nel vocabolario non c’è. Evidentemente non è una cosa ammissibile: chi ha figli si rifiuta anche solo di immaginare una circostanza del genere. E non c’è differenza tra