Una crisi e troppi silenzi
Senza un governo con pieni poteri l’italia potrà fare solo da comparsa nelle decisioni di politica internazionale, dalla sfida sui dazi alle nuove regole sui migranti, fino al bilancio Ue che rischia di tagliare 6-7 miliardi per il nostro Paese.
Ma senza un esecutivo l’italia rischia anche la paralisi legislativa e amministrativa. Il governo Gentiloni, in carica per gli affari correnti, non può varare alcuna riforma, ma anche quelle approvate nella passata legislatura rischiano di restare sulla carta, perché richiedono centinaia di provvedimenti attuativi: 150 solo la legge di Bilancio, dei quali solo una trentina sono stati adottati. Quanto alla prossima manovra, quella per il 2019, sempre che nel frattempo la commissione europea non ce ne imponga una correttiva per l’anno in corso (rischio che sale col prolungarsi della crisi), essa avrà come primo compito di evitare che dal prossimo gennaio l’aliquota Iva del 10% aumenti all’11,5% e quella del 22% al 24,2%. Per scongiurare un rincaro generale dei prezzi bisognerà trovare 12,5 miliardi di euro e Bruxelles non consentirà che lo si faccia, come in passato, con più deficit, ma si dovranno tagliare la spesa pubblica e/o trovare maggiori entrate. Mentre i partiti parlano d’altro, stupisce che le parti sociali, le categorie produttive e i sindacati non uniscano le loro forze per reclamare la soluzione di una crisi politica che più si prolunga e più rischia di esporre l’economia, le imprese e le famiglie a un peggioramento.
Eppure, le parti sociali sono le prime a sapere che al ministero dello Sviluppo sono aperti 162 tavoli di crisi aziendale, che coinvolgono circa 180 mila lavoratori. Così come sanno che il capitolo investimenti è fondamentale per la crescita. Ora, dopo le decisioni prese nella passata legislatura, si è accumulato un pacchetto di investimenti che rappresenta un’occasione unica di rilancio del Paese e di creazione di lavoro. Ma bisogna coglierla. Basti pensare alla Strategia energetica nazionale, il piano approvato a novembre dal governo, che punta alla riduzione della dipendenza dell’italia dalle importazioni di petrolio e gas, investendo 175 miliardi fino al 2030. Oppure ai 133 miliardi, di cui 97,5 già disponibili secondo l’allegato infrastrutture al Def presentato in Parlamento, per costruire, da qui al 2030, ferrovie, metro, strade, autostrade, porti e aeroporti. Affinché questa montagna di risorse non resti sulla carta è necessario uno snellimento delle norme e delle procedure (inevitabili altre correzioni al codice degli appalti) per far sì che le opere vengano realizzate in tempi ragionevoli anziché nei 15 anni che occorrono mediamente ora, come riconosce lo stesso Def. Ma un esecutivo dovrebbe servire proprio a questo.
Sul fronte del lavoro sono pendenti le deleghe al governo del Jobs act per autonomi e professionisti, in materia di tutela della maternità e malattia. Nella sanità va ripartito il fondo per il taglio del superticket per i redditi bassi. Palazzo Chigi deve emanare gli ultimi atti per far partire le Zes (zone economiche speciali) in un Sud che intanto si allontana dal resto d’italia. Sono solo alcuni esempi che dovrebbero spingere i partiti a rendersi conto che un governo è urgente. Una presa di coscienza che sembra insufficiente anche nelle parti sociali. Del resto, dopo due mesi di liti inconcludenti tra i leader politici, si fa strada nell’opinione pubblica un comprensibile misto di fastidio e stanchezza, che rischia però di creare un pericoloso slittamento, cioè l’illusione che sia meglio non averlo un governo. Ma è un’illusione, appunto.